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Éric de Moulins-Beaufort

Arcivescovo, Presidente della Conferenza episcopale francese
 biografia

 Prendere la parola in questa tavola rotonda nell’ambito dell'Incontro internazionale per la pace organizzato dal movimento di Sant'Egidio è per me un privilegio, del quale ringrazio molto gli organizzatori. Partecipo per la prima volta a un incontro di questo tipo, anche se ho seguito con attenzione il suo svolgimento nel corso degli anni.

Per entrare nel vivo del tema che ci è stato affidato, permettetemi di condividere con voi Il mio stupore. Tutti hanno ammirato la cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici e c'erano buoni motivi per farlo. Tuttavia, essa ha suscitato in me un’impressione contrastante. La trama, spiegata alla televisione dai commentatori, era la seguente: fra qualche decennio, dopo che la terra è stata devastata, gli uomini rimasti scoprono gli anelli olimpici nascosti nella polvere e li alzano; il gesto di risollevarli simboleggia la reviviscenza dei valori olimpici per un'umanità rinnovata. Ma gli acrobati che hanno rappresentato gli esseri umani mentre uniscono le loro forze per questo rinnovamento, erano tutti vestiti allo stesso modo, incappucciati e mascherati. Mi è sembrato che così venisse esaltata, senza dubbio involontariamente, una forma di collettivismo paragonabile a quello delle formiche o delle api, l'efficacia di esseri molteplici e simili al tempo stesso, tutti intercambiabili, tutti commisurati al compito che devono portare a termine. L'umanesimo cristiano, invece, aspira alla cattolicità, cioè all'unità nella varietà, nelle sfumature dei colori, delle origini, delle sensibilità, delle scelte, dei gusti, degli impegni. Tutto sarebbe stato diverso in questo spettacolo e nel messaggio che esso veicolava, se gli attori a un certo punto si fossero tolti la maschera facendo apparire i loro volti.
L'umanesimo cristiano, l'idea di umanesimo che la fede cristiana suscita, è quella di un umanesimo di volti che si fronteggiano, di uomini e donne che si   scoprono il volto, lasciandosi guardare dagli altri e guardandoli, non per metterli alla prova, non per servirsene, non per ridurli alle loro competenze funzionali, ma per farsi sorprendere, stupire e meravigliare da loro.
Questo è ciò che intendo per umanesimo cristiano, o idea cristiana di umanesimo, perché è il mio percorso personale. Questa idea di un umanesimo dei volti può benissimo essere sostenuta da altre sorgenti spirituali e culturali, religiose o addirittura antireligiose. Mi sembra che i fattori vadano invertiti; a ciascuno spetta il compito di scavare nella propria tradizione spirituale e culturale per trarne l'idea di umanesimo più adeguata e ricca. Il termine umanesimo può riferirsi a realtà ben diverse. In un primo tempo, indicava gli studi, un certo livello di cultura, l'interesse per la letteratura antica e  il modo in cui veniva presentata; in seguito è giunto a definire ogni forma di pensiero che mette al centro l'umano, talvolta l'umano nella sua autonomia, concepita  necessariamente come contrapposta a  Dio; ma più umanisti di quanto hanno sostenuto  alcuni studiosi, sono stati dei cristiani autentici che trovavano in Cristo, in particolare nell'idea dell'immagine di Dio, le solide basi  di una visione che valorizza la dignità e la bellezza di ogni essere umano, che non è necessariamente incompatibile con la valorizzazione di tutti gli esseri. Mi sembra che una delle grandi sfide del nostro tempo sia valorizzare la diversità dell'umanità, darle un senso, non vederla soltanto come un ostacolo al funzionamento dell'economia o delle relazioni internazionali. A prima vista tutti sembrano concordare che sia positivo riconoscere la diversità dell'umanità, nelle sue culture e nei suoi modi di vita. Bisogna però riconoscere che il fenomeno della globalizzazione esercita una forte pressione perché gli stili di vita diventino sempre più omogenei, con la circolazione da un capo all'altro del mondo degli stessi prodotti, veicolati dalla pubblicità, dal cinema, dai social network. Ma qui vorrei insistere solamente sull'importanza della diversità delle spiritualità e delle religioni. Esiste la tentazione di pensare questa varietà come un grande ostacolo all'unità dell’umanità, alla capacità di incontrarsi e di lavorare insieme, di fissare degli obiettivi comuni e di mettersi al loro servizio. Insieme a molti altri, vorrei proporre la scelta opposta: è innegabile che le religioni nutrono alcune passioni e contribuiscono a contrapporre violentemente alcuni uomini ad altri. Noi, uomini e donne di religione, siamo pronti a dire che la nostra religione finisce per essere strumentalizzata e traviata da questo genere di conflitti. Ma dobbiamo anche riconoscere che il fatto religioso e , in ogni caso, ciò che noi cristiani chiamiamo fede e che non è necessariamente prerogativa di tutte le religioni e spiritualità, mobilita negli esseri umani  un senso dell'assoluto, il senso di ciò che è importante e permea tutto il nostro essere, la nostra rappresentazione del mondo; e c'è sempre il rischio enorme che la nostra violenza interiore, la nostra paura innata, venga rafforzata  in questa mobilitazione, anche se  le nostre religioni e spiritualità ci forniscono una visione completamente diversa del mondo e di Dio, o del divino.  Ma niente sarebbe più drammatico per l'umanità che rassegnarsi a edulcorare le differenze, a ridurle attraverso una cultura della superficialità, un costante risveglio delle emozioni e delle passioni. Le differenti religioni rappresentano dei modi di intendere il mondo, la relazione con Dio, con gli altri, con il cosmo, che sono incompatibili gli uni con gli altri. Cercare di farne sintesi è un'illusione. Bisogna accettarne le contraddizioni e sopportare i contrasti, ma tutto questo impegnandosi nello sforzo di liberare tale ricerca da ogni dominio della paura e della violenza. Padre de Lubac ha potuto scrivere che non si devono esplorare le religioni a partire dalle loro realizzazioni più mediocri, ma attraverso le loro vette spirituali, e aggiungeva che, una volta scalata una vetta, ci si ritrova più distanti dagli altri.  Questa diversità non ci deve spaventare, noi dobbiamo trovare in essa un incoraggiamento ad approfondire la nostra umanità. Prefiggersi l'umanesimo come fine è un obiettivo di grande valore, perché noi non siamo obbligati ad intendere l'umanesimo come un annacquamento della singolarità delle nostre spiritualità. Noi possiamo vedere in esso la promessa di un’appropriazione più precisa della nostra tradizione per tutti. Come leader religiosi, noi abbiamo la responsabilità di sviluppare e di aiutare i credenti a sviluppare un'ermeneutica dei nostri testi fondativi che alimenti un umanesimo della diversità, una concezione dell'umanità che ci permetta di meravigliarci delle più belle realizzazioni ed espressioni dell'ideale umano, indipendentemente dalle sue forme, e di cercare come la nostra vita possa esserne arricchita e rinnovata. A questo ci richiama l'appello alla fratellanza firmato da Papa Francesco e dal grande imam della Moschea di  Al-Azhar in occasione del loro incontro ad Abu Dhabi.
Conosco abbastanza bene i miei interlocutori della Conferenza dei leader religiosi in Francia per assicurare che siamo tutti impegnati in questo sforzo.