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Donatella Di Cesare

Filosofa, Sapienza Università di Roma, Italia
 biografia
Da ormai quasi tre anni, dall’invasione russa dell’Ucraina, la guerra si è fatta spazio nelle case europee. Al primo immediato sgomento, alle prime “grida di pace”, sono seguiti rassegnazione, distacco, impassibilità. Dobbiamo dircelo: siamo entrati in una nuova epoca storica, dominata da regimi di guerra. E ciò ha conseguenze non solo sul panorama geopolitico, ma anche sulla nostra percezione degli altri e di noi stessi, sulla nostra umanità. 
 
La diffusa narrazione mediatica, il reportage dal fronte, ci ha via via abituato a credere che sia inevitabile ricorrere alla violenza militare, cioè alla violazione del corpo altrui, per dirimere un conflitto. Anche nel XXI secolo. Ma c’è di più: la retorica disumanizzante della guerra ci ha spinto a considerare normale la morte delle vite altrui – decine, centinaia, migliaia. La nostra immaginazione si inceppa. Ogni giorno i notiziari alludono alle perdite – ogni giorno “si muore” nella neutralità indifferente ed è, alla fin fine, come se nessuno fosse morto. Siamo ormai quasi giunti a ritenere ovvia la morte di intere popolazioni – viste non come vittime bisognose di protezione, bensì come minacce esistenziali.        
 
Quando oggi si parla di “vita” non si può ignorare questa svolta epocale impressa dalla logica bellicistica, svolta che accelera e acuisce un andamento già emerso prima con chiarezza. Come in un brutto film, da dimenticare in fretta, abbiamo assistito, freddi e imperturbabili, a innumerevoli perdite: vite spezzate di migranti inghiottiti dal mare, innocenti torturati nei lager, donne e bambini lasciati morire nei deserti, anziani calpestati come rifiuti e scorie. Si è imposta così una visione ignominiosa della vita, quella degli altri più altri: la superfluità. Ci sono altri più altri, le cui vite appaiono talmente superflue da essere già votate alla perdita. Dovessero soccombere, non meriterebbero il nostro lutto. Noi infatti non le piangiamo, non versiamo una lacrima, non avvertiamo più neppure un tremito fugace di afflizione. Cambiamo programma, spegniamo lo schermo. Qualcuno prova perfino una certa soddisfazione per quella minaccia venuta meno, che avrebbe contaminato e guastato il nostro ordine. D’altronde “se la sono voluta”.
 
Il regime di guerra in cui siamo entrati non ha solo incentivato tutto ciò, ma ha fornito soprattutto la cornice interpretativa. Sta qui la svolta: nella legittimazione politica. Si giustifica ormai la separazione tra vite degne di lutto e vite non degne di lutto. Allo stesso modo in cui si giustifica la frontiera tra vite da proteggere e vite da abbandonare e bandire. Si parla di muri – ma il vero grande muro sta in questo iato, in questa separazione abissale, nel baratro che ormai è stato scavato tra le vite che si conformano alla norma occidentale dell’umano e le vite degli altri più altri, estranei al punto da essere stigmatizzate come umanità superflua ovvero non-umanità.
 
Non voglio soffermarmi su questo tema, su cui ho già insistito tante volte, ma desidero invece sollevare la questione: che cos’è una vita non degna di lutto? Ci sarebbe davvero qualcosa del genere? Una vita la cui perdita non avrebbe importanza? Il valore della vita emerge proprio qui. Perciò dobbiamo essere consapevoli che la domanda stessa è in sé un’aberrazione. Eppure, i tempi attuali ci costringono a sollevarla. Perché proprio questo è ciò che sta accadendo. Una deriva senza precedenti, che minaccia – questa sì – di scardinare non solo i nostri valori religiosi, etici, politici, ma la nostra stessa coesistenza. Se si avallasse l’idea di una vita non degna di lutto si spezzerebbe il legame umano. Passa di qui la divisione tra umanità primaria e secondaria, degna e indegna. 
 
Risponderanno a questa domanda – e rispondono già – la filosofia, la teologia, le scienze. Ma nel frattempo noi che cosa possiamo fare? Tanto più che quelle vite ritenute “superflue”, non sono solo lì fuori, ma sono anche qui tra noi. Potrei fare innumerevoli esempi, crudeli, ripugnanti, agghiaccianti – che anziché suscitare indignazione vengono rivendicati. La sfida più urgente per ciascuno di noi è resistere – resistere sia per un verso criticando la cornice interpretativa, la logica bellica in senso ampio, sia provando invece nel profondo il senso del lutto, del pianto, per ogni vita che si perde. Anche e proprio questo è resistere. 
 
Non si tratta di ingenuo buonismo. Un domani molto prossimo la vita non degna di lutto, quella sacrificabile, potrebbe essere la nostra. Anche noi, malgrado tutto, siamo esposti, anche noi ci riveliamo vulnerabili. Ma la vulnerabilità, lungi dall’essere una privazione, è una risorsa che sottende il legame reciproco. Dal senso della perdita per la vita altrui, dal lutto collettivo per le tante guerre, dovremmo immaginare la pace disegnando una nuova politica della vulnerabilità.