Intervento del prof. Andrea Riccardi, Fondatore della Comunità di Sant’Egidio
Signor Presidente della Repubblica,
Altezza,
Eminenza card. Dziwisz
Illustri Rappresentanti delle Chiese cristiane e delle grandi Religioni mondiali,
A settant’anni dall’inizio della guerra mondiale, siamo venuti, uomini e donne di differenti religioni, come pellegrini sulla terra calpestata per prima dal passo pesante delle armate tedesche. Il 1 settembre 1939 cominciò l’invasione della Polonia, paese martire destinato all’annientamento. La guerra, in pochi anni, avrebbe condensato i mali che l’umanità del Novecento era capace di produrre. Durante la guerra, alcuni ebrei polacchi scrivevano: “Ci sentiamo come se in ogni momento ci stessimo avvicinando all’orlo dell’abisso, un abisso spalancato e pronto ad inghiottirci”. L’abisso della Shoah ha inghiottito –senza motivo alcuno- sei milioni di ebrei, per mano dei tedeschi e dei loro collaboratori.
L’orrore della guerra é la più grande lezione al nostro tempo. Una lezione da meditare. La guerra è la morte di tutto quello che unisce i popoli, divenuti nemici.
Ma, dall’abisso della guerra e dal ripudio di essa, è nato o rinato l’umanesimo del nostro tempo, capace –come ci ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio di oggi- di realizzare “una cultura e uno stile di vita improntati all’amore, alla solidarietà e alla stima per l’altro”. Dalla guerra é nata la volontà degli europei di avere un destino comune, mai più in guerra tra loro. Sono lieto della presenza del Presidente della Commissione Europea, José Manuel Durao Barroso. Dal crogiuolo della guerra sono rinate le idee di libertà, che hanno portato alla fine del colonialismo; che hanno liberato l’Est europeo dopo l’inverno di quasi mezzo secolo di comunismo. Nessuna cultura politica, nessuna visione del futuro, nessun umanesimo, possono dimenticare il crogiuolo del fuoco che fu la seconda guerra mondiale. Un’umanità smemorata produce politiche inconsistenti effimere, senza futuro, prigioniere dei fuochi d’artificio del mondo mediatico.
Gli uomini e le donne, che hanno sofferto nella guerra, sono spesso maestri e testimoni della pace come ricerca di quel che unisce i popoli. Un figlio della guerra fu Giovanni Paolo II, nato nel 1920. Lui, scampato da tanto male, sentiva la responsabilità di dire l’orrore della guerra: di dire il comune destino dell’umanità che è la pace, non la sopraffazione degli uni sugli altri. Siamo a Cracovia, sua patria, per un omaggio a lui. Alcuni hanno venerazione per lui come un grande papa. Altri come grande maestro cristiano. Tutti pensano che fu un grande, come raramente si incontrano nella storia. Testimone di fede cristiana, fu anche un maestro di umanesimo.
In piena guerra fredda, nel 1986, infatti Giovanni Paolo II convocò ad Assisi, patria di San Francesco, i leader delle grandi religioni per pregare per la pace, non più gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri. Da allora cominciò a soffiare lo spirito di Assisi. Lo ricorda bene il card. Etchegaray, tra i grandi artefici di quell’evento. Lo ricorda il card. Dziwisz, fedele come un figlio a Giovanni Paolo II, che sa quanto il papa tenesse a quell’appuntamento storico. E colgo l’occasione per ringraziare il cardinale per l’ospitalità e la collaborazione generosa, senza cui questo evento sarebbe stato impossibile; e per la bella liturgia con cui ci ha accolto.
La Comunità di Sant’Egidio comprese che Assisi andava continuata dopo l’86. Risento la voce forte di Giovanni Paolo II, a Assisi, nel 1986, che invitava a continuare: la avvertii come una chiamata. Lo spirito di Assisi è dialogo tra le religioni, coscienti dell’apporto decisivo delle religioni e dello spirito alla pace. Anno dopo anno, ci siamo mossi in paesi differenti. Giovanni Paolo II appoggiò questo pellegrinaggio. Al termine di quell’indimenticabile giornata del 1986, disse:
“Insieme abbiamo riempito i nostri occhi di visioni di pace: esse sprigionano energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie. La pace attende i suoi artefici…”
Tre anni dopo, nel 1989, in Polonia si sono spezzate le catene generate dalle ideologie. La fine del comunismo fu una transizione pacifica, fatta con la forza dei disarmati. Negli anni Settanta e Ottanta, si teorizzava invece che la storia potesse essere cambiata solo con la violenza o la rivoluzione armata.
Nel 1979, trent’anni fa, Karol Wojtyla tornò da papa a Cracovia, chiedendo ai polacchi di non cedere alla rassegnazione. Qualcosa di nuovo sembrava impossibile contro il muro pesante della guerra fredda. Solo una nuova guerra mondiale –si diceva- avrebbe abbattuto quel muro. Giovanni Paolo II non voleva una guerra, ma il suo amore per la pace non era rassegnazione: credeva alla forza dello spirito. Con il viaggio in patria nel 1979 ravvivò lo spirito dei polacchi e aprì una fenditura di speranza in un orizzonte cupo.
Nel 1989, a dieci anni dal primo viaggio, avvenne un grande cambiamento storico: in modo pacifico. Mi disse una volta il papa: “Vedendo l’89, si capisce che non si è pregato invano ad Assisi nel 1986!”. La preghiera è una forza storica. La Comunità di Sant’Egidio, il 1 settembre 1989, con tanti leader religiosi, venne a Varsavia nel nome dello spirito di Assisi. Non abbiamo pregato invano per la pace in Africa. Penso alla pace in Mozambico. A quella in Burundi.
C’è una corrente profonda, che le cronache non percepiscono. Lo spirito cambia la storia. Gli uomini, talvolta uomini sotterranei come dice Dostojevksi, cambiano la storia. Nel 1958, quando il card. Wyszynski, coraggioso primate di Polonia degli anni bui, venne a Roma, un grande credente italiano, il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, intuì il futuro: “Wyszynski è la Chiesa che, perseguitata, avanza e vince… L’impero comunista –nonostante tutte le apparenze- è già colpito al cuore: le mura di Gerico –nonostante le apparenze! –sono già abbattute…”. Molti ridevano delle visioni di questo sognatore.
La forza dei mediocri e dei miopi è ridicolizzare e sminuzzare le visioni dei grandi. Ridevano di Giovanni Paolo II, quando parlava di Europa dall’Atlantico agli Urali durante la guerra fredda, per restare poi attoniti nel ’89. Giovanni Paolo II fu un grande credente. Per tanti di noi è stato un santo. Non un relativista irenico, ma un roccioso credente che ha creduto che il dialogo fosse indispensabile per la pace: per creare una civiltà del vivere insieme.
Il mondo dopo l’89 aveva le possibilità di creare questa civiltà. Il mondo globalizzato è una grande occasione di pace. Molti hanno preferito affidarsi a una globalizzazione economica, considerata come una provvidenza che tutto guida al bene (ma ne parlerà il mio amico Michel Camdessus). Altri hanno cominciato a vedere il mondo retto dalla logica dello scontro: di religione o di civiltà. E, specie dopo i sanguinosi atti terroristici dell’11 settembre 2001, abbiamo assistito alla crisi del dialogo. Si è affermato –di nuovo!- l’uso della forza e della guerra, come strumento per risolvere i problemi. I risultati tristi di questa politica sono sotto gli occhi di tutti.
Il dialogo è stato additato come una via debole e perdente. Ma l’aggressività produce aggressività. Il disprezzo fa risorgere muri di odio, sepolti appena da pochi decenni.
Noi abbiamo tenuto duro in questi ultimi anni, fiduciosi che il dialogo scriva la storia migliore. Abbiamo tenuto duro, quando ci veniva chiesto a che serve il dialogo o quali fossero i suoi risultati. Il dialogo è, come la preghiera, qualcosa che non può essere misurato con criteri miopi. Che cosa sarebbe il mondo senza preghiera?
L’Europa nella sua essenza è dialogo, come ha dichiarato il Presidente Barroso: “l’Europa rappresenta una specie di laboratorio, fatto… di unione di sovranità diverse, di rispetto delle differenze”. Il dialogo annoda i fili dell’unità.
Il nostro mondo ha perso troppo la passione per l’unità. Lo si vede nello scetticismo verso l’Europa. Lo si vede nel culto delle patrie locali o nella risorgenza dei nazionalismi. Lo si vede nella diffidenza allo straniero come fosse una minaccia. La caduta della passione per l’unità si manifesta nella poca preoccupazione per l’unità dei cristiani, quale la sentirono grandi come Paolo VI, il patriarca ecumenico Athenagoras, il metropolita russo Nikodim. Il mondo globalizzato, senza ricerca dell’unità, impazzisce e si frammenta pericolosamente.
Nell’appagamento di sé e del proprio piccolo mondo (anche religioso), nella poca profondità spirituale, si spengono le passioni di unità. Il fondamentalismo legittima il disprezzo per gli altri, nell’autosufficienza aggressiva. S’incrina la passione per il dialogo. Si rinuncia a un’arte necessaria nel mondo contemporaneo, dove gente diversa coabita insieme, dove nessun paese è autosufficiente. Senza il dialogo è difficile vivere nel mondo quotidiano, come sugli scenari del grande mondo.
Per le religioni il dialogo è un fatto spirituale. Il dialogo é conversione profonda e pensosa, che chiama alla via di Dio, iniziando un dialogo con Colui che è al di là di noi.
Appare significativo che, per i musulmani, questo sia il tempo sacro del Ramadan, digiuno, purificazione e ritorno a Dio. Grande occasione (tanto che il Profeta dice: «Quando arriva il Ramadan vengono aperte le porte del Paradiso, e chiuse quelle del Fuoco, e i demoni vengono legati».) Un credente di rara intelligenza, il vescovo Pietro Rossano ricordava che “ogni religione quando esprime il meglio si sé tende alla pace”. Tornare a Dio porta misteriosamente alla riscoperta del gran valore della pace. Per talune religioni la pace è nome di Dio. Andare in profondità alla propria fede conduce non a divergere, ma a convergere verso gli altri. Gesù insegna: “beati i miti, perché erediteranno terra”. Il possesso della terra non è dominio, sconfitta o disprezzo dell’altro, ma esercizio della mitezza e della comprensione.
Karol Wojtyla si stupiva della trama che unisce le religioni, pur nella radicale diversità: “invece di meravigliarci –scriveva- che la Provvidenza permetta una tanto grande varietà di religioni, ci si dovrebbe piuttosto stupire dei numerosi elementi comuni che in esse si riscontrano.”.
Un mondo globalizzato, nelle sue infinite sfaccettature, ha bisogno di unità. Il dialogo tra le religioni è l’anima di quest’unità. Non è un rito, ma una passione. Lo spirito di Assisi spinge alla pubblica testimonianza –come faremo nel momento finale nella piazza del Mercato, di Cracovia, come avviene dal 1986- della volontà di essere insieme: diversi e in pace. Il dialogo è la tessitura paziente di un’umanità divisa, capace di ricucire i destini dei popoli. Rivela quel mistero di unità che si cela dietro le vicende complesse del mondo globalizzato. Il dialogo è la medicina che libera dai demoni dell’odio, del disprezzo, della guerra.
Sempre il ricordo della sofferenza –come ha detto stamane nel suo bel discorso il metropolita Serafim- è evocato nei nostri incontri nello spirito di Assisi. Tra due giorni, il nostro congresso si farà pellegrinaggio fino all’orlo dell’abisso del dolore, Auschwitz. Lì, in un giorno di digiuno, ci recheremo pellegrini. Non si può solo avere un’idea astratta del male, dalla divisione e dalla guerra. Non basta. Si deve calpestare un luogo, vedere, sentire, toccare. E’ il senso del pellegrinaggio in tutte le religioni. E il senso del pellegrinaggio delle religioni ad Auschwitz, abisso nel male. Lì, sull’orlo dell’abisso, di cui non si vede il fondo, si sente il bisogno di indicare un’altra strada per l’umanità: il comune destino dei popoli nella pace.
A settant’anni dall’inizio della guerra, sulle strade della bella e nobile Cracovia, come sui sentieri tristi di Auschwitz, non risuona il passo cadenzato delle truppe di occupazione, quello stanco dei deportati o di un popolo umiliato; ma quello amico dei pellegrini di religione diversa. Questo, settant’anni fa non sarebbe stato possibile, quando la divisione della guerra si unì alle divisioni culturali e religiose, ereditate dalla storia. Fu possibile vent’anni fa, nel 1989, a Varsavia, quando il mondo stava cambiando. Oggi, è possibile essere insieme. Non è un’occasione da sprecare di fronte a una globalizzazione impazzita nella crisi economica. Gente di religioni diverse si ritrova insieme, senza niente confondere, cercando quello che unisce. Scruta il futuro nel dialogo, come sognavano in tempi lontani Raimondo Lullo e Nicola Cusano. E dice la volontà di continuare a camminare insieme sulla strada del dialogo e della pace. Perché essere insieme, senza confusione ma senza divisioni, manifesta il destino comune dell’umanità. A tale destino occorre dare anima.