25 Ottobre 2022 09:30 | La Nuvola
Stefano Orlando a #thecryforpeace: "Far sentire la voce dei poveri"
Buongiorno a tutti,
Il mio intervento partirà dall’esperienza di Sant’Egidio sulla comunicazione
Quindi a Sant’Egidio non ci occupiamo primariamente di comunicazione, ma la comunicazione è alla base del lavoro con i poveri e per la pace.
A Sant’Egidio tutti sappiamo che per aiutare i poveri e far crescere la pace, c’è bisogno di comunicare con tutti. Soprattutto con chi non la pensa come noi.
E questo chiaramente passa anche per i media, e per l’utilizzo dei social media.
Quindi vorrei parlare di tre sfide rispetto ai media, e ai social e a come possono contribuire alla pace e a un futuro più giusto.
Le bad news e le good news
Il punto di partenza, ben noto ai professionisti della comunicazione, è che le cattive notizie, le bad news, attraggono molto più l’attenzione di quelle buone. Un episodio di violenza, un disastro, un pericolo, cattura l’attenzione. Fa parte di meccanismi cognitivi ampiamente studiati dalle neuroscienze, e sostanzialmente fondati sul nostro istinto di auto-conservazione.
E’ quindi naturale che i media tradizionali, il cui prestigio, e i cui profitti, si basano sulle vendite o sugli ascolti, diano largo spazio alle bad news. Ed è altrettanto chiaro che sui social media, dove non c’è una decisione editoriale a monte, ma sono gli utenti a decidere, avviene lo stesso.
Certo, oltre alle bad news c’è l’intrattenimento: i famosi gattini. Il problema è che così resta poco spazio per le buone notizie.
Quale è la conseguenza? Che si diffonde un senso pessimistico e scoraggiato sul futuro personale e del mondo. Soprattutto ci si convince che i problemi sono enormi, e quindi non vale la pena impegnarsi per risolverli. Meglio distrarsi con una serie Netflix!
Si crea una distorsione pessimistica nella percezione della realtà. Un esempio tra tanti. Andate a vedere il sito Gapminder: loro chiedono alle persone cosa sanno di tanti aspetti importanti del mondo e della società, e poi confrontano i dati e notano forti differenze.
Il punto quale è: non che dobbiamo ignorare i problemi, come ingenui ottimisti, ma che parlare solo dei problemi, e mai delle soluzioni alternative genera rassegnazione, paura e rabbia. La paura non è per forza un problema. Io ho paura della minaccia atomica, e vorrei che ne avessero di più quelli che hanno il potere. Il problema sono le paure irrazionali.
Hitler nel Mein Kampf diceva che lo scopo della propaganda è quello di sostituire, nella sfera pubblica, il dibattito ragionato con le paure irrazionali e le passioni.
Qui non c’è Hitler, ma siamo noi stessi che ci auto sottoponiamo ad una propaganda negativa.
Ieri avete ascoltato Olya Makar di Kiev, ha parlato della guerra nella sua città, un racconto tragico, ma ha anche raccontato di quello che stanno facendo a Kiev per la pace. Gli aiuti, le distribuzioni, le attività con i bambini. Si può parlare della tragedia della guerra con una proposta concreta, non ingenua, di pace.
E’ la realtà alternativa di cui parlava ieri Andrea Riccardi.
Perché il grido della pace sia ascoltato, perché possiamo affrontare e invertire il riscaldamento climatico e la crisi ambientale, perché diminuiscano le diseguaglianze che non fanno male solo ai più poveri, ma a tutti, dobbiamo prima di tutto immaginare un futuro positivo.
Quello che si immagina, poi si realizza! Le famose profezie che si auto-avverano di cui parlano gli economisti.
Cosa possono fare i media?
Non è facile andare contro la natura umana che è attratta dalle cattive notizie, ma la forza dell’uomo è che nella storia ha imparato a vincere i suoi istinti, le sue paure, di far prevalere la ragione e i sentimenti positivi sulle paure irrazionali.
Insomma, sarà che sant’Egidio è fondata sul Vangelo, cioè come sa chi ha studiato greco, una buona notizia. Ma noi alle buone notizie ci crediamo, e le vogliamo diffondere sempre di più, insieme ai media, ai social media, e ai giovani.
Quindi inizio per primo a raccontare una cosa positiva, una bella esperienza. Da un paio d’anni, in collaborazione con binario F di Meta, che ringrazio (sarebbe Facebook, lo dico perché non tutti si sono ancora abituati a nuovo nome), e insieme ad alcuni esperti, organizziamo un corso per giovani comunicatori, su come comunicare il bene sui media e sui social. E poi sempre Meta qualche anno fa ci ha dato dei crediti per sponsorizzare la pagina dei Giovani per la Pace, e il numero di follower è aumentato in un anno di 50 volte, e poi in maniera esponenziale. Ora sono quasi 30.000 follower che leggono le nostre buone notizie, di giovani che si impegnano per un mondo migliore.
I social media non sono del tutto neutri. Se le good news sono sfortunate, le possiamo promuovere di più!
Far sentire la voce dei poveri
Dei poveri, dei marginali, dei periferici, degli ultimi si parla sui media sempre come un problema. Come di categorie sociali, e non come persone, e non li si fa parlare.
Ma a Sant’Egidio ho capito che la povertà è un problema, non i poveri. Anzi sono belli e simpatici. Spesso la prima impressione dei volontari dei licei, dopo essere venuti a fare volontariato con noi è “mi sono divertito”. Sono come sorpresi che la povertà e la tristezza non si sia contagiata.
E poi i poveri hanno idee, proposte, sogni, richieste che meritano attenzione. Insomma non bastano gli spot o i servizi con i bambini che stanno per morire. Purtroppo, dicono la verità, ci sono troppi bambini che muoiono, ma il rischio è che così finiamo per averne paura, perché abbiamo paura della sofferenza, e invece ci vuole anche un po’ di spazio per ascoltarli i bambini. Spesso dicono cose molto più sensate dei grandi, soprattutto sulla pace e contro guerra. Li consideriamo ingenui, ma viva l’ingenuità se porta alla pace.
Ultimo punto: unire e non dividere
Qui parlo soprattutto dei social, e parlo anche da esperto di salute pubblica. L’abuso dello screen time fa male alla salute. Ci sono centinaia di studi su questo. E uno dei meccanismi attraverso cui si producono i danni è la diminuzione delle relazioni sociali. Quelle virtuali non sono un equivalente.
Vi consiglio di leggere gli interessanti saggi di Manfred Spitzer come “connessi e isolati”, o il volume di Noreena Hertz sul secolo della solitudine in cui c’è un interessante capitolo sul ruolo dei social media nell’aumentare la solitudine, che è un vero e proprio fattore di rischio, quasi come il fumo di sigaretta.
I social sono importantissimi per molti motivi. Fanno circolare notizie, idee, anche ottime idee. Ma non possiamo chiedergli di fare quello che non possono fare: creare legami interpersonali caldi. E poi rischiano di scollegare dalla realtà. Su questo un famoso esempio è la campagna invisible children sui bambini soldato. Un video di denuncia visto da milioni di persone, ma quando si è chiesto a queste persone di attaccare un cartello fuori dalla propria casa come azione concreta contro questa ingiustizia, non lo ha fatto quasi nessuno.
Anche qui non voglio accusare le grandi companies. Che si rendono conto del problema.
Anzi, visto che non c’è solo Meta, devo dire che abbiamo collaborato anche con Google in un progetto per contrastare l’odio online, e il cyber bullismo che prevedeva incontri nelle scuole sull’uso dei social media, ma anche delle attività off-line.
Insomma, anche i social che rischiano di allontanarci, possono al contrario spingerci a uscire di casa a incontrare la realtà viva delle nostre comunità, e a impegnarci per gli altri, che è l’opposto dell’isolamento sociale.
E poi in questo discorso sulla divisione voglio rapidamente citare un altro problema: il rischio insito nei social media, ma anche nei media tradizionali di aumentare la polarizzazione della nostra società, e quindi i conflitti.
Echo chamber, auto-silenziamento delle minoranze moderate, i dibattiti online in cui ci si radicalizza invece di ascoltare le ragioni degli altri. Sono tutti fenomeni molto importanti, e lungamente studiati, su cui non c’è tempo per soffermarsi.
Ma quello che voglio dire è che ascoltare il grido della pace, per i media, vuol dire contrastare questi fenomeni cercando di far emergere quello che unisce, e non quello che divide. Educando i fruitori dei media. Non convincendoli che hanno sempre ragione, per vendergli qualcosa, ma che il bello della comunicazione è sforzarsi di capire l’altro, anche se è il tuo “oppositore”, o non la pensa come te. Se non ha delle buone ragioni ha almeno delle ragioni, e vale la pena ascoltarle e comprenderle.
E’ chiaro che su questo non basta che i media, o i giornali, o le grandi aziende si impegnino. Serve anche la scuola, le famiglie, e ci dobbiamo impegnare tutti noi. Bisogna formare persone che sanno ascoltare e non solo persone che affermano le proprie idee con prepotenza.
Uno sforzo non da poco ma, ne sono convinto, ne vale la pena!
Quindi più immaginazione alternativa, ascoltare la voce dei poveri, unire e non dividere.