23 Settembre 2024 09:30 | Collège de France – Amphithéâtre Maurice Halbwachs
Intervento di Daniela Pompei
1. Olimpiadi e medaglie
Il primo posto nel medagliere delle Olimpiadi che si sono appena concluse in questa città che ci ospita, è andato agli Stati Uniti che notoriamente sono un paese fondato sull’immigrazione. Tra i primi quindici paesi, per numero di medaglie conquistate, sette sono paesi europei; basta ripercorrere alcune delle storie degli atleti vincitori per comprendere, se ce ne fosse bisogno, quanto l’Europa deve all’immigrazione.
Nell’opinione pubblica italiana proprio queste Olimpiadi hanno avuto un’eco tale da far tornare attuale il dibattito sull’immigrazione e su un punto decisivo come quello della cittadinanza. Questa volta non nei consueti termini spaventati e difensivi in cui questo dibattito viene spesso espresso, ma con un sentimento misto di sorpresa, contentezza, orgoglio ed ammirazione.
Una gioia per le medaglie dell’Italia, e questa gioia ha avuto come sfondo immagini che rappresentano bene la realtà mista dei paesi europei. Come la foto della squadra femminile di pallavolo italiana ben rappresentata dall’abbraccio e dallo scambio di medaglie d’oro tra Miriam Silla e Anna Danesi.
Qualche storia spiega bene questa realtà.
Miriam Silla nasce a Palermo da una coppia senegalese, il padre era emigrato per primo per motivi di lavoro, si era poi ricongiunto alla moglie; nel difficile inizio di questo percorso avevano trovato sostegno da parte di una coppia di palermitani, Miriam era cresciuta, bambina in una famiglia allargata, accudita anche da quelli che ha sempre continuato a considerare i suoi nonni. Diventa cittadina italiana ancora minorenne, dopo che il padre ottiene la cittadinanza per naturalizzazione.
Miriam rivendica la sua storia di italiana come emerge dalle sue parole “Integrarsi? ma integrarsi con chi? Io non devo integrarmi da nessuna parte, sono nata e cresciuta in questo paese, questa è la mia cultura. Parlare così tanto di integrazione produce l’effetto contrario”.
Andy Diaz Hernandez per l’Italia è vincitore del bronzo nel salto triplo. Dopo Tokyo a cui aveva partecipato con la nazionale cubana, si sottrae al ritorno e chiede asilo in Italia. Lo stesso fanno alcuni suoi compagni di squadra, uno in Spagna e un altro in Portogallo; alle Olimpiadi di Parigi li ritroviamo ai primi posti del medagliere, così il Portogallo conquista l’oro, la Spagna l’argento e l’Italia il bronzo.
Andy spiega di aver scelto l’Italia perché nei giochi precedenti aveva parlato con un atleta italiano più grande di lui. Si tratta di Fabrizio Donato che lo ha accolto a casa sua quando ha deciso di non tornare a Cuba e ha chiesto asilo, segue la procedura dei richiedenti asilo in Italia e, riconosciuto, ottiene la cittadinanza per meriti speciali su proposta del Ministero dell’Interno. Tre anni dopo l’ingresso in Italia, un paese che, in via ordinaria, per decidere su una domanda di naturalizzazione impiega quattro anni.
Due storie diverse quelle di Miriam e di Andy, lei nata in Italia e lui arrivato da maggiorenne; la prima si inserisce in una migrazione economica e l’altro in una richiesta di protezione internazionale.
Entrambi hanno un tratto comune che spiega il segreto del loro successo: l’incontro con cittadini italiani che sono stati disponibili a sostenerli all’inizio del loro percorso. SI, l’inizio è un momento decisivo e critico, in cui possono essere colte potenzialità per il successo o il fallimento.
La storia è simile anche per le paralimpiadi: il campione medaglia d’oro nel lancio del disco, ha conquistato con la sua bravura e simpatia il pubblico italiano: è Rigivan nato in Italia da genitori srilankesi, anche lui sostenuto da lungo tempo dal suo allenatore.
È questa anche, in forma diversa, l’esperienza che ha permesso il successo dei Corridoi Umanitari, aperti in Italia, in Francia e in Belgio, a quasi dieci anni dal loro inizio, per gli oltre diecimila rifugiati si può dire che è stato decisivo l’apporto soprattutto nella fase iniziale di cittadini, gruppi, associazioni, disponibili a sostenere il percorso di naturalizzazione.
Storie come quelle che ho raccontato, e ce ne sono tante altre, dovrebbero anche renderci avvertiti di quali responsabilità sono investiti i soggetti istituzionali, i giornalisti e i commentatori nel rappresentare le migrazioni in termini informati e corretti, senza fomentare paure e risentimenti, ma, piuttosto, laddove ci sono vicende positive di italiani e immigrati insieme raccontarle al paese in termini fedeli.
2. Cittadinanza e integrazione
Le gare olimpiche hanno messo in luce in maniera chiara come la presenza di nuovi cittadini europei è oggi una realtà ampia e radicata e sempre più rappresenterà il futuro del nostro continente.
Sul totale della popolazione europea, quattrocento quarantotto (448) milioni, al gennaio 2023 oltre ventisette milioni sono cittadini di paesi extra UE a cui vanno aggiunti i cittadini comunitari fuori dal loro paese di origine, 14 milioni. A questi 41 milioni di “stranieri “vorrei aggiungere 20 milioni di nuovi cittadini europei che hanno acquisito la cittadinanza negli ultimi 15 anni, si tratta già ora di oltre 60 milioni di cittadini cioè poco meno del 14% della popolazione europea.
È già visibile nelle società europee l’apporto demografico ed economico degli immigrati. Uno dei tratti più significativi dei nuovi cittadini europei è proprio che sono più giovani: l’età media della popolazione europea al 1° gennaio 2023 era di 44,5 anni, quella dei nuovi cittadini europei era di 31 anni. E nel 2022 il 39% di coloro che hanno acquisito una cittadinanza avevano meno di 25 anni. Insomma, davvero, i nuovi cittadini europei ringiovaniscono l’Europa.
In Italia al gennaio 2024 gli stranieri residenti tra gli 11 e i 19 anni sono poco meno di mezzo milione e rappresentano il 9,7 % del totale dei ragazzi di questa fascia di età, la più rappresentata delle altre fasce di età degli immigrati. Ciò dimostra la grande stabilità raggiunta dalla popolazione immigrata e l’apporto specifico dei giovani. Del resto degli immigrati regolarmente presenti sul territorio nazionale, il 66% è titolare del permesso come lungo-soggiornanti e questo costituisce un indiscutibile indice di stabilità.
A fronte di questa realtà, le condizioni di accesso alla cittadinanza, sia per gli adulti che per i minorenni, risultano in Italia del tutto anacronistiche, a maggior ragione se confrontate con il quadro europeo.
Era il 2004, in un Italia in cui i fenomeni di cui osserviamo gli effetti erano in gran parte già evidenti, quando la Comunità di Sant’Egidio lancia la campagna “Made in Italy” chiedendo modifiche alla legge sulla cittadinanza proprio a partire dai bambini. Infatti, allora come oggi, secondo una legge del 1992 che è rimasta immutata, non c’è nessuna possibilità per un minore, anche se nato in questo paese, di diventare cittadino prima della maggiore età, a meno che uno dei suoi genitori non divenga cittadino italiano e che non abbia mai lasciato il paese, anche temporaneamente.
Per gli adulti, il periodo di residenza richiesto per la domanda di cittadinanza è tra i più alti d’Europa: dieci anni, a cui si aggiungono i quattro anni di durata della procedura. In sostanza, quattordici anni complessivamente. Persino l’Ungheria richiede meno anni di residenza.
Una legislazione del genere determina, soprattutto nei giovani, una condizione di precarietà, di incertezza sul proprio futuro che investe la stessa identità personale: ci si sente pienamente italiani senza essere riconosciuti tali, si protrae una condizione, anche legale, di dipendenza assoluta dal titolo di soggiorno dei genitori.
In questo senso la cittadinanza costituisce il riconoscimento giuridico di quel sentimento di appartenenza che i giovani già vivono; proprio questo spiega, almeno in parte, la condizione di svantaggio in cui crescono i minori stranieri, ad esempio le maggiori difficoltà incontrate in ambito scolastico, con un elevato numero di abbandoni nei percorsi di studio, che raggiungono il 30% dal livello della scuola secondaria superiore.
Emerge, a questo proposito, un aspetto che a quello della cittadinanza è strettamente connesso: la mancanza di politiche serie, perché strutturate e costanti nel tempo, che affrontino l’integrazione e che pongano in essere azioni efficaci per riequilibrare lo svantaggio iniziale dei nuovi arrivati. Investimenti sull’apprendimento della lingua e della cultura italiana o di quelle dei paesi di accoglienza, ma anche azioni che favoriscano l’inserimento nei circuiti scolastici già nella fase da 0 – 6 anni, per gli adulti il riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero.
Quindi, se l’Italia negli ultimi tre anni ha concesso il numero di cittadinanze più alto tra i paesi europei, si deve non certo ad un particolare favore della legislazione, ma al fatto che alcuni decenni di immigrazione e una raggiunta stabilità, hanno portato una coorte consistente di immigrati a ottenere i requisiti per la cittadinanza.
Quella dell’integrazione è la vera sfida che tutta l’Europa deve porsi con l’adozione di azioni concrete; ciò interpella certamente le politiche della prossima Commissione. Occorre immaginare e costruire una dimensione europea capace di includere stabilmente i nuovi cittadini, e soprattutto non concentrata unicamente sulle politiche di chiusura ed esternalizzazione delle frontiere e di contenimento dei flussi.
Allora è necessario un cambio di visione: chi giunge in Europa, a qualsiasi titolo anche per chiedere la protezione internazionale, rappresenta sempre una risorsa per le nostre società e per le nuove generazioni di europei che raffigureranno assieme ai nuovi europei il futuro.