1 Octobre 2013 09:30 | Théâtre du Collegio Urbano
La crisi in medio oriente: vecchi e nuovi conflitti
Pure in un mondo afflitto da una molteplicita’ di conflitti, il Medio Oriente continua a distinguersi per l’incessante succedersi di crisi caratterizzate da instabilita’ politica e violenza. Anzi, si puo’ dire che la regione sia caratterizzata da una crisi permanente.
Non vogliamo, non dobbiamo, d’altra parte rassegnarci fatalisticamente a una situazione che comporta da un lato indicibili sofferenze umane, e dall’altro contamina inevitabilmente le relazioni internazionali nel loro complesso, mai come oggi – al tempo della globalizzazione – impossibili da separare in compartimenti stagni. Nessuno puo’ disinteressarsi al Medio Oriente: per la questione energetica, certo, ma non solo, nella misura in cui i confini non sono soltanto permeabili al commercio e alla finanza, ma anche alla destabilizzazione e al contagio della violenza.
Il tentativo di spiegare, e soprattutto interpretare politicamente, il perche’ della permanente crisi medio-orientale occupa da sempre politici e studiosi, che hanno apportato elementi di valore per permettere di avvicinarci a una maggiore comprensione. Elementi, appunto, ma certamente – nonostante la pretesa contraria - non una chiave unica, una magica formula che permetta di decifrare l’enigma. Anzi, il problema e’ anche questa pretesa, di solito rivelatrice di dogmatismi che tendono ad essere funzionali rispetto ad un disegno politico inadeguato a risolvere i problemi quando non addirittura tendente ad aggravarli.
Cosi’ non manca chi (soprattutto in Medio Oriente, ma anche negli ambienti marxisti e di progressismo radicale dell’Occidente) attribuisce la permanente crisi medio-orientale al colonialismo prima e al neo-colonialismo poi, che avrebbero impedito il consolidarsi di Stati-nazione capaci di far fronte ad un tempo al compito di garantire lo sviluppo economico e il consolidamento di sistemi basati sulla partecipazione democratica. Una parte della verita’, senza dubbio. Il trauma dell’orgogliosa civilta’ islamica, assoggettata e umiliata a partire dallo sbarco di Napoleone in Egitto, non puo’ essere sottovalutato, tanto piu’ se teniamo conto di un fattore importante, quello della prossimita’ del Medio Oriente rispetto all’Occidente. Un Occidente troppo vicino e troppo diverso, troppo intimo e troppo estraneo. Di qui il confronto, l’umiliazione. Chi non e’ irrimediabilmente “culturalista” (termine che spesso e’ un eufemismo per razzismo) deve ammettere che la nostra stessa presenza, in quanto Paesi economicamente e tecnologicamente piu’ sviluppati, non puo’ non falsare gli stessi ritmi di sviluppo di chi e’ a noi vicino - e oggi sempre piu’ vicino – ma profondamente diverso. Anche in positivo, per la possibilita’ di trasferimento di know-how, di esperienze socio-economiche e di forme di aiuto allo sviluppo, ma spesso in negativo, sia per meccanismi di dipendenza e sfruttamento (il neocolonialismo non e’ solo retorica degli estremisti) sia per la frustrante aspirazione ad un’ impossibile imitazione.
Ma la tentazione del “fattore unico” che domina ai nostri tempi e’ senza dubbio un’altra, quella economicista, un’interpretazione divenuta quasi egemonica dal punto di vista culturale. Secondo questa interpretazione, sarebbe facile spiegare la persistenza e l’asprezza dei conflitti in Medio Oriente: “it’s the economy, stupid!”.
Ritardo di sviluppo, scarsa industrializzazione, eccessiva dipendenza, per molti Paesi dell’area, dall’esportazione di idrocarburi (la cosiddetta “maledizione del petrolio”) sarebbero le vere spiegazioni della conflittualita’ endemica in Medio Oriente.
Non si tratta certo di confutare questa interpretazione sottovalutando il peso degli aspetti economici, ma piuttosto di leggerli in rapporto a fattori politici, senza i quali non si spiegherebbe il passaggio tra dati economici e conflitti. Il DAC, Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’OCSE, ha pubblicato, nel 2001, un rapporto sui risultati di un esercizio, condotto sulla base di un’ampia partecipazione di esperti, teso a fare emergere i nessi fra sviluppo, e in particolare cooperazione allo sviluppo, e conflitti. Lo studio – il cui scopo e’ fornire ai Paesi donatori strumenti per farsi carico degli effetti politici del loro aiuto - identifica in particolare quelli che sono i segnali che fanno temere l’insorgere della violenza, definiti early warning and risk indicators . Ecco i principali:
- Perdita dello spazio politico per l’opposizione, la societa’ civile e i media
- Esclusione sociale, economica e politica di alcuni gruppi dall’andamento prevalente dello sviluppo
- Alta percentuale di giovani disoccupati
- Effetti distorsivi dello sviluppo in termini distributivi e aumento delle disuguaglianze
- Crescente perdita di dignita’ e violazioni dei diritti umani.
Non dovrebbe essere molto difficile riscontrare questi segnali nella realta’ della maggior parte, se non di tutti, i Paesi dell’aerea.
Come e’ comprensibile, tuttavia, essere sottoposti allo scrutinio da parte dei Paesi piu’ sviluppati, e piu’ potenti (l’OCSE e’ spesso definita come il club dei Paesi ricchi) viene vissuto come un’ ulteriore umiliazione da parte di chi risente di essere, piuttosto che rispettato soggetto, oggetto delle altrui valutazioni. L’accusa di “orientalismo” rivolta agli esperti occidentali e’ sempre dietro l’angolo.
E allora lasciamo che parlino studiosi arabi, concretamente il gruppo di economisti che a partire dal 2002 hanno curato la serie degli Arab Human Development Reports pubblicata dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP). Questi economisti arabi si sono posti il problema di come spiegare il fatto che, presa come punto di partenza la situazione economica mondiale negli anni 1960, i Paesi arabi abbiano perso clamorosamente terreno rispetto a quelli di altre aree del mondo, in particolare in Asia e nelle Americhe, che sono riusciti ad accelerare il proprio processo di sviluppo, talora con risultati clamorosi. I fattori economici e socio-economici esaminati (dal livello di industrializzazione alla sanita’, dall’alfabetizzazione alla disponibilita’ di materie prime) non riescono a spiegare questo ritardo relativo. Ecco invece dove, secondo questi rapporti, possiamo individuare elementi di spiegazione. Principalmente si tratta di tre deficit, di natura palesemente non economica bensi’ effetto di politiche conservatrici:
- Un deficit di liberta’ : liberta’ di espressione e di stampa, rispetto dei diritti umani e delle liberta’ civili da parte dei governanti.
- Un deficit di empowerment della popolazione femminile, solo marginalmente inserita nel mondo economico e nella societa’
- Un deficit di conoscenze, non tanto in termini di scolarita’ di massa, generalmente adeguata, quanto di eccellenza: il livello della ricerca nei Paesi arabi e’ uno dei piu’ bassi del mondo, mentre l’apertura culturale al mondo e’ – a parte alcune eccezioni - molto limitata (ad esempio e’ stato calcolato che in un anno si traduce in arabo, nei Paesi arabi nel loro complesso, un numero di libri stranieri pari a quello tradotto annualmente da altre lingue nella sola Spagna).
Forse sarebbe il caso di replicare: “It’s the politics, stupid!”.
Vi e’ pero’ un’ altra interpretazione che concorre con quella economicista: quella religiosa. Oggi si parla molto del fattore religioso, che sarebbe da un lato storicamente responsabile della “perdita di velocita’ “ del Medio Oriente islamico rispetto allo sviluppo occidentale, e dall’altro causa di divisioni e conflitti che rendono impossibile ai popoli della regione di impegnarsi, in assenza di un contesto di convivenza e regole mutuamente accettate, in un cammino di progresso politico e civile. Anche qui, siamo di fronte ad una dimensione del tutto reale, ma che se accolta come “fattore unico”, si trasforma da utile strumento a grossolana distorsione.
Lo sfruttamento ideologico della religione a fini politici non e’ certo un fenomeno dei nostri giorni, e nemmeno un’esclusiva del mondo islamico. L’espressione tuttora corrente instrumentum regni identifica un concetto ed una pratica antichi. E nemmeno possiamo dire che le devastazioni dell’intolleranza e del settarismo religioso siano una triste esclusiva dell’Islam. I cristiani farebbero bene a non dimenticare la propria storia, non solo per quanto riguarda l’intolleranza nei confronti di altre religioni, ma alche all’interno del cristianesimo stesso. Nel momento in cui assistiamo alla recrudescenza della contrapposizione, spesso violenta, fra sunniti e sciiti, sarebbe davvero curioso che dimenticassimo la lunga ferocia delle guerre fra cattolici e protestanti.
E non si tratta solo di cristiani. Per fare un solo esempio, le persecuzioni settarie contro la minoranza musulmana in Myanmar sono fomentate e dirette da monaci buddisti, seguaci di quel Buddha che e’ uno dei massimi maestri e simboli della pace e della compassione universale.
Fatta questa necessaria operazione di modestia e obiettivita’ – importante per abbandonare un’ immotivata arroganza e uno squallido senso di superiorita’ – dovremmo invece cercare di capire piu’ profondamente e correttamente i motivi della indubbia problematicita’, e conflittualita’, del fatto religioso in Medio Oriente.
Per farlo, dovremmo ampliare il quadro, e aggiungere elementi, fattori, dimensioni.
In primo luogo, la difficolta’ di realizzare, in Medio Oriente, l’identificazione fra individuo e comunita’ nazionale, unica possibile base per costruire un contesto politico nel cui ambito sia possibile la convivenza. Ma perche’ in Medio Oriente e’ cosi’ difficile creare il cittadino?
La prima ragione e’ del tutto evidente, e non richiede grandi sforzi di approfondimento. Si tratta del fatto che in tutto il Medio Oriente il potere e’ stato storicamente caratterizzato non solo da arbitrio e violenza, ma anche dalla mancanza di un disegno di costruzione di una res publica . Non e’ questione di democrazia o meno: nella fase della formazione degli Stati europei il potere era dinastico, assoluto, feroce, intollerante. Eppure quel potere era nello stesso tempo impegnato, seppure nella difesa di una stabilita’ del privilegio, nella costruzione di un contesto statuale progressivamente caratterizzato da regole, progetti collettivi, convergenza di interessi fra governati e governanti. La natura “estrattiva” del potere in Medio Oriente e’ stata a fondo analizzata da politologi e sociologi, e non sembra essere un punto controverso. Estrattivo vuol dire perpetuazione – anche in sistemi non monarchici - di dinastie non solo di potere ma anche di interesse materiale, e nello stesso tempo mancanza non solo di democrazia, ma di quello che ne dovrebbe costituire la base e la premessa: uno stato di diritto.
Come viene molto efficacemente analizzato da Ghassan Salame’ in un’antologia da lui curata per la Fondazione Mattei e pubblicata nel 1993, Democrazie senza democratici, forse, invece di guardare solo o prevalentemente in direzione del fenomeno religioso, faremmo bene a soffermarci su un dato di tipo sociologico e concretamente su un’analisi le cui prime origini risalgono al grande intellettuale arabo del XIV secolo Ibn Khaldoun. Khaldoun, nel descrivere la societa’ araba, mette l’accento sulla forza dominante della asabiyya, la comunita’ particolare, e particolaristica, in cui l’individuo si riconosce ed alla quale da’ la propria allegiance. Una fedelta’ profonda, esclusiva, e soprattutto non facilmente superabile con l’adesione a piu’ vasti ambiti di identificazione, in particolare lo Stato. Un’identita’ collettiva di tipo settario che rende molto difficile quel superamento delle particolarita’ che e’ indispensabile perche’ possa emergere la figura del cittadino.
No, non e’ la fede religiosa in quanto tale a rendere difficile il discorso politico in Medio-Oriente, ma l’appartenenza alla religione intesa settariamente come asabiyya. Non si tratta soltanto di un residuo di antiche radici sociologiche e culturali. Se cosi’ fosse sarebbe piu’ facile superarle con la modernizzazione, con l’evoluzione materiale della societa’. In fondo non si tratta di un processo sconosciuto in altre societa’, come la stessa societa’ italiana, nella quale il fenomeno del “familismo amorale”, parente stretto della asabiyya, non si puo’ certo dire completamente superato. Il dramma del Medio Oriente e’ prodotto non solo dalla presenza di dirigenti autoritari e cleptocratici, ma anche dal fatto che il difficile processo di superamento della dimensione settaria dell’appartenenza, avviato quanto meno in determinati settori della societa’, viene oggi ad essere ostacolato se non vanificato dalla spinta alla riaffermazione di una propria identita’ come reazione a quello che viene percepito come l’appiattimento delle diversita’, e della capacita’ di incidere sulla propria esistenza, che e’ il portato della globalizzazione.
Non solo in Medio Oriente, ma ovunque, si registra questa spinta a tracciare confini di appartenenza piu’ stretti e quindi capaci di delimitare ambiti piu’ familiari. Ovunque e’ in crisi la dimensione del cittadino. Ma in Medio Oriente, dove piu’ recente e piu’ fragile era il processo di modernizzazione politica, il fenomeno ha piu’ gravi conseguenze.
Religione vissuta come asabiyya identitaria, quindi, ma anche in modo totalizzante, come da tempo non avviene per la religione cristiana.
Si pone qui, inevitabile, la questione del rapporto religione/politica, e in particolare quella del secolarismo, della laicita’ dello Stato. Chi, nel mondo musulmano – un mondo permeato dalla religione - propone di fondare un sistema politico sulla negazione della presenza della religione non solo nelle coscienze individuali, ma nello spazio pubblico, non puo’ se non arrivare a giustificare le dittature laiche. Nel momento in cui si chiede ai credenti di dare prova di democrazia, non sarebbe male se la stessa prova fosse richiesta ai non credenti e ai laici.
D’altra parte e’ inaccettabile che dalla presenza nello spazio pubblico si pretenda di passare all’imposizione della religione attraverso la coercizione delle leggi e dell’apparato dello Stato. L’individuo puo’ essere ad un tempo cittadino e credente (o non credente) e, se credente, influira’, in quanto cittadino, sull’orientamento dello Stato.
Quello che non e’ ammissibile e’ invece una sorta di “corto circuito” in cui la religione pretende di esercitare un controllo diretto sullo Stato e, attraverso lo Stato, imporre precetti di natura religiosa su tutti, credenti e non credenti o fedeli di altre religioni.
Come scrive un grande intellettuale musulmano, Abdullahi an-Naim, la politica puo’ avere un’ ispirazione religiosa, ma lo Stato deve essere laico. E’ una vera tragedia che nel mondo musulmano lo stesso concetto di laicita’ sia praticamente incompreso, tanto e’ vero che la traduzione del termine “laico” e’ la-dini , non religioso. Errore non solo linguistico, ma anche concettuale, se si pensa alla necessita’ di un incontro, come cittadini di un comune Stato democratico, di credenti e non credenti (e anche “diversamente credenti”) sull’unica base possibile, quella della laicita’ dello Stato.
Le forme attuali della crisi medio-orientale sono particolarmente complesse, prodotto come sono di un’ ulteriore molteplicita’ di fattori. A storia, economia, societa’ e religione si uniscono infatti elementi che hanno a che vedere piu’ strettamente con il livello politico, sia interno a ciascun Paese, sia internazionale.
Internamente, la cosiddetta Primavera Araba ha rivelato che, al di la’ di tutte le differenze, i popoli della regione non si distinguono dagli altri popoli della terra per quanto riguarda l’aspirazione alla giustizia, la richiesta di liberta’ e partecipazione, il rifiuto del privilegio e della prepotenza repressiva del potere. Nello stesso tempo e’ ben presto risultato chiaro quanto fosse difficile il cammino che potra’ portare a costruire sistemi politici democratici in quanto basati sul rispetto del volere delle maggioranze, espresso nelle elezioni e non solo sulle piazze, ma anche liberali in quanto rispettosi delle diversita’ sia religiose che etniche.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, poi, appare evidente come il Medio Oriente rimanga preda di spinte e controspinte originate sia al suo interno, nella dinamica dei rapporti fra gli Stati della regione, sia dall’esterno, in un momento in cui il palese indebolimento della potenza americana (soprattutto per i clamorosi fallimenti di due interventi militari, in Afghanistan e in Iraq) lascia un vuoto che invece di comportare una crescita di liberta’ e indipendenza dei popoli del Medio Oriente, produce caos, conflitti, tentazioni di destabilizzazione.
Tanto piu’ che resta irrisolto il problema che certo non spiega da solo tutte le tensioni e i conflitti della regione, ma che senza dubbio contribuisce a renderne la soluzione piu’ difficile: la questione Israele/Palestina. Un problema la cui mancata soluzione puo’ certo essere attribuita in parte a tutti i protagonisti (responsabili sia di assurda intransigenza sia di errori di strategia negoziale), ma dove si farebbe bene a non dimenticare che la responsabilita’ e’ direttamente proporzionale al potere, e che certo i palestinesi non possono essere considerati piu’ potenti sia politicamente che militarmente degli israeliani.
Un altro fattore internazionale che rende piu’ aspre le contrapposizioni e piu’ difficili le soluzioni e’ la “questione iraniana”, una questione non solo nucleare, ma che consiste nella finora insanabile ostilita’ fra Teheran e Washington e nella rivalita’ fra Iran ed Arabia Saudita, quest’ultima motore e sostegno principale della “offensiva sunnita” in corso in tutta la regione - e anche oltre, fino all’Afghanistan.
Il tragico caso della Siria, in fondo, riassume in se’ tutti questi fattori: la dittatura laica sfidata, in questo caso militarmente, da uno schieramento islamista (moderato e non); il difficile rapporto fra islamisti e minoranze; la spinta sunnita; le esitazioni americane; il ruolo di altri attori internazionali (Russia e Iran da una parte e Turchia, Arabia Saudita e Qatar dall’altra).
Nel frattempo l’Egitto sembra tornare indietro in quello che sembrava un cammino di democratizzazione e di integrazione di un islam moderato, con la prospettiva che il prossimo presidente sia nuovamente un militare, mentre diventa particolarmente drammatica la situazione della minoranza cristiana, bersaglio di attacchi violenti da parte di militanti del movimento dei Fratelli Musulmani che non le perdonano l’adesione al colpo di Stato. Un’adesione certo improvvida, ma che si spiega con la triste esperienza di comunita’ che, presenti in Medio Oriente da prima dell’avvento dell’Islam, hanno visto – in Iraq, in Egitto e altrove – che la caduta dei dittatori laici ha comportato un aumento delle discriminazioni e spesso delle persecuzioni nei loro confronti. Religione come settarismo, come asabiyya, appunto. E come smentita della tolleranza di un Islam non settario, tolleranza evidentemente non solo possibile, ma storicamente reale, dato che senza di essa quelle consistenti comunita’ cristiane oggi non esisterebbero, come non esistono piu’ le comunita’ musulmane un tempo presenti nella Spagna e nella Sicilia musulmane.
Per tutti questi motivi lo sforzo di estendere il riconoscimento della comune umanita’ al di la’ del perimetro che definisce la nostra appartenenza religiosa, etnica, politica, razziale, e’ particolarmente difficile in Medio Oriente, ma rimane pur sempre problematico, e soggetto a possibili regressioni, in tutto il mondo.
l’unica via per la pace e la convivenza. E’ un compito di estrema difficolta’, ma anche un compito cui non possiamo sottrarci.