Partecipazione del Sottosegretario Prof. Vincenzo Scotti all’Incontro internazionale per la Pace organizzato a Cracovia dalla Comunità di Sant’Egidio
(6-8 settembre 2009)
Intervento sul tema “La transizione pacifica: 1989”
Gentile Presidente (Eccellenza Tadeusz Pieronek, Vescovo polacco)
Gentili partecipanti,
spettabile pubblico,
• E’ particolarmente significativo poter parlare della transizione pacifica del 1989 proprio qui in Polonia. Nonostante il muro di Berlino e la sua caduta il 9 novembre 1989 vengano considerati rispettivamente l’”icona” e la data del crollo del sistema politico ed economico di tipo sovietico, l’”inizio della fine” può essere piuttosto datato al 6 febbraio 1989, quando si riunì a Varsavia una “Tavola Rotonda” alla presenza di rappresentanti del governo polacco e di Solidarnosc e di altri esponenti della società civile. Fu tale commissione a prendere la decisione di tenere le elezioni il 4 giugno 1989, a seguito delle quali nasceva nel settembre 1989, sotto la guida di Tadeusz Mazowiecki, il primo governo non comunista in Europa orientale dalla fine dell’ultima Guerra, che avviava una profonda trasformazione della Polonia.
• Nel giro di poco tempo, una sorta di «effetto domino» faceva crollare gli altri regimi dell’Europa Orientale. Iniziava per tali paesi un periodo di transizione mirante a convertire ordinamenti non democratici in democratici ed economie pianificate in economie di mercato.
Si trattò di evoluzioni diverse, a seconda dei diversi modi in cui il regime comunista si era consolidato nei vari paesi.
• In generale si trattò però di una transizione pacifica, con un’unica parentesi di violenza in Romania. Ed è per questo che alcuni analisti definiscono il 1989 come il più straordinario della storia. Altre date sono scolpite nella nostra memoria, dal 1648 al 1945, passando da 1789, 1848, 1917, 1939; nessuna però come il 1989 ha visto eventi così straordinari ed epocali succedersi senza –quasi- spargimento di sangue.
• La guerra fredda viene liquidata al termine di un processo che prende avvio nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino e termina nel 1991 con la fine dell’Unione Sovietica. Forse il momento più significativo di questo «triennio epocale» è rappresentato dalla riunificazione delle Germania nel 1990. Si ricomponeva in tal modo una frattura storica e spariva dalla faccia del continente europeo uno dei lasciti più dolorosi della seconda guerra mondiale.
• Certo è che il cambiamento avvenne in maniera rapida e inaspettata. Si è parlato, non senza una certa approssimazione, di una transizione di «dieci anni in Polonia, dieci mesi in Ungheria, dieci settimane nella RDT, dieci giorni in Cecoslovacchia»
• Ma se guardiamo ai processi più profondi, ci rendiamo conto che si trattava di un cammino che riprendeva idealmente il solco di un percorso già tracciato dal punto di vista culturale e spirituale. Già nel 1980, Papa Giovanni Paolo II aveva infatti ricordato come non si potesse respirare da cristiani con un solo polmone: «bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale».
• La fine del socialismo reale non può essere compresa facendo riferimento alle sole dinamiche interne a ciascuno stato, che hanno sicuramente condizionato le modalità delle transizioni, ma non ne spiegano la contemporaneità. Così come il sistema comunista era stato imposto dall’URSS, fu la maggiore libertà concessa da Mosca, attraverso l’azione del nuovo segretario del PCUS Michail Sergeevic Gorbacëv, a contribuire alla rapida implosione dei regimi. La nuova politica estera di Gorbacëv, basata appunto sull’autonomia dei paesi alleati, sulla promozione della coesistenza pacifica e del superamento della divisione in blocchi contrapposti del mondo e, in particolare, dell’Europa (di cui parla in termini di “casa comune europea” rilanciando, in un altro contesto, l’idea gollista di Europa dall’Atlantico agli Urali), si manifestò nella decisione comunicata all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 7 dicembre 1988 di ridurre unilateralmente gli armamenti sovietici in Europa centro-orientale.
• Un corso, quello intrapreso da Gorbacëv, che impedì all’URSS di ostacolare la definitiva apertura della frontiera ungherese con l’Austria l’11 settembre del 1989, la prima vera breccia nella cortina di ferro.
• Non apprezzeremo mai abbastanza la fine di un confronto bipolare che ha rappresentato una vera e propria svolta nel modo di concepire le relazioni internazionali. E che si intreccia con la complessa e per molti versi contraddittoria storia del XX secolo che ha visto al tempo stesso l’apice della guerra, divenuta guerra di sterminio, e il faticoso dipanarsi della trama politica che ha condotto alla l’«invenzione» o reinvenzione della pace» (basti pensare alla Lega delle Nazioni, alle Nazioni Unite, alla stessa Unione Europea). Se da una parte la cifra di 60 milioni di morti (due terzi dei quali civili) nel corso della Seconda Guerra Mondiale dà la dimensione del carattere devastante assunto dalle guerre contemporanee, dall’altra mai come nel XX secolo sono risuonate appropriate le parole scritte da sir Henry Maine, un giurista inglese dell’Ottocento: «War appears to be as old as mankind, but peace is a modern invention». La pace come modo d’essere «strutturale» del sistema internazionale è un’invenzione recente, e si colloca proprio nel XX secolo, per altri versi sanguinoso e fratricida. Ma oggi siamo chiamati ad approfondire e a consolidare questa tendenza positiva, anche per quanto riguarda la ricerca di una «terza generazione» di istituzioni internazionali e multilaterali.
• A questo proposito, ho trovato di grande interesse la proposta, contenuta nell’enciclica di Benedetto XVI «Caritas in veritate», di affidare la governance della globalizzazione ad «un'autorita' policentrica», costituita da piu' livelli e da piani diversi e coordinati fra loro, non fondata esclusivamente sui poteri pubblici, ma anche su elementi della societa' civile. Il principio della sussidiarieta' - definito «espressione inalienabile della liberta' umana» -, affiancato da quello della solidarieta' dovrebbero ispirare una riforma della governance, ormai urgente e non più rinviabile.
• Sinora, infatti, le promesse di un nuovo ordine mondiale successivo al bipolarismo non sono state mantenute. Gli analisti sono passati dall’«ottimismo della volontà» al «pessimismo della ragione». In una prima fase abbiamo assistito al proliferare di interpretazioni rassicuranti, ad una sorta di «trionfalismo della guerra fredda». Basti pensare alla tesi «fine della storia» di Francis Fukuyama (affermazione «definitiva» del modello liberal-democratico e dell’economia liberista) ed alla teoria della «globalizzazione ineluttabile».
• Dopo l’11 settembre ha preso piede un discorso politico fondato sul tema della crisi, ed articolato attorno ai temi dello «scontro di civiltà» (Samuel Huntington), del terrore globale, dell’integrismo islamista, dell’intolleranza identitaria, dell’insicurezza mondiale e della precarietà individuale (Zygmunt Bauman), divenute la cifra sociale, economica e politica della crisi finanziaria esplosa tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009.
• La percezione dominante, per buona parte degli anni ’90, fu che la fine della guerra fredda segnasse l’affermazione di una fase storica pacifica, dominata dall’economia occidentale e dagli indiscussi benefici della globalizzazione. Alle illusioni di allora è seguito un brusco risveglio. La guerra nei Balcani prima e poi il trauma dell’11 settembre 2001 hanno segnato una netta inversione di tendenza nelle percezioni occidentali ed europee, dimostrando che la fine del bipolarismo non aveva in realtà prodotto un’epoca di stabilità ma una transizione internazionale non facile e gravida di rischi. Una transizione fatta non solo di crescita economica e di diffusione della democrazia, ma anche di instabilità ai confini dell’Europa, di esplosione del terrorismo di matrice islamica, di nuove minacce transnazionali. Dal punto di vista geopolitico infatti, l’asse centrale dei problemi della sicurezza – europea e internazionale - si è spostato da Est verso Sud (Mediterraneo, Medio Oriente, Golfo).
• Se dunque il muro di Berlino, il simbolo più evidente del bipolarismo, della cortina di ferro, è caduto, altri muri, più o meno tangibili, ma non meno odiosi, devono ancora essere abbattuti.
• Mi riferisco innanzitutto al muro invisibile che continua a separare il Nord ed il Sud del mondo, tra un Nord scarsamente popolato e altamente industrializzato e un Sud che vede crescere la popolazione molto più rapidamente delle risorse prodotte da un’economia spesso basata sull’agricoltura di sussistenza e sull’esportazione di materie prime. Un problema questo, che sta molto a cuore all’Italia, come dimostrano gli sforzi profusi nel corso del recente Vertice G8 dell’Aquila, durante il quale è stato deciso l'aumento dello stanziamento dei Grandi a 20 miliardi di dollari in tre anni da dedicare all'agricoltura nelle aree del mondo dove la fame falcidia le vite e le speranze di intere generazioni. Più in generale, come scrive Benedetto XVI nella “Caritas in veritate”, le sperequazioni socio-economiche all’interno e tra gli stati rendono necessario un nuovo rapporto tra economia ed etica, poiche' «il primo capitale da salvaguardare e valorizzare e' l'uomo, la persona nella sua integrita'»: come diceva Maritain, «tutto l’uomo e tutti gli uomini».
• Un altro muro «virtuale», che divide nord e sud del mondo è quello dello sviluppo umano e di quella che viene definita «digital divide», l’impossibilità per gli strati più poveri della popolazione mondiale di avere accesso alle più moderne tecnologie; tecnologie che, accanto agli aiuti materiali più immediati e urgenti, possono rendere le nuove generazioni del sud del mondo capaci di affrancarsi da una realtà di arretratezza, odio e guerre tribali.
• Un ulteriore muro da abbattere è quello che vede posizioni fortemente contrapposte sul tema dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Si tratta della profonda divisione tra paesi più o meno industrializzati, tra «inquinatori» passati e futuri, tra aree più o meno minacciate dai cambiamenti climatici. Divisioni che spesso trascurano la circostanza che il patrimonio ambientale è uno e indivisibile e che solo uno sforzo comune, che tenga certamente conto delle diverse capacità e responsabilità, permetterà di far fronte a problematiche che mettono a rischio la stessa esistenza futura dell’uomo sulla terra.
• Infine, ed è questa la ragione per cui ci troviamo qui oggi, rimane da abbattere il muro dell’intolleranza, del razzismo, del pregiudizio, dello scontro tra fondamentalismi. Occorre perseguire la via del dialogo e della cooperazione tra le diverse culture e religioni e eventi come questo dimostrano che non si tratta di una missione impossibile.