Molti si sono chiesti come definire il lavoro per la pace, il “fare pace” di Sant’Egidio. Andrea Riccardi lo spiega nell’introduzione del libro che porta lo stesso titolo: “Sant’Egidio è un “soggetto internazionale” molto particolare. Non un’organizzazione internazionale, non una ONG specializzata in mediazioni, non un’agenzia non governativa, non l’emanazione di un governo… E’ una Comunità cristiana, nata a Roma nel 1968, nota per il suo lavoro con i più poveri e in situazioni di grave povertà nel mondo. Con gli anni è divenuta una fraternità (o, se si vuole, un’internazionale) di Comunità radicate in vari paesi del mondo, in Europa prima di tutto, nelle Americhe, in Asia, ma particolarmente in Africa. Resta da chiedersi come una Comunità cristiana abbia condotto un’azione di pace su varie frontiere del mondo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Non si creda che la Comunità sia un’organizzazione pesante, ricca di impiegati o risorse economiche. C’è una grande risorsa: l’interesse per l’orizzonte del mondo, spesso per paesi dimenticati, vissuto con fedeltà e in una molteplicità di contatti”.
E’ una definizione utile a chi vuole capire la particolarità di Sant’Egidio, soprattutto nella sua passione per il grande mondo. E’ una passione che si nutre di una spiritualità evangelica che considera la guerra come un male: a Sant’Egidio diciamo che la guerra è madre di tutte le povertà. L’insegnamento dei papi dall’inizio del Novecento a oggi è segnato da una domanda di pace: Benedetto XV, durante la prima guerra mondiale, parlava di “inutile strage” e Giovanni Paolo II, suo lontano successore, avrebbe definito la guerra come “avventura senza ritorno”. La convinzione che la guerra sia un’avventura senza ritorno è maturata nell’esperienza di tanti mondi dolorosi segnati da essa. Abbiamo visto da vicino realtà di guerra e di conflitto, con tutta la loro drammaticità, che la mia generazione – la nostra di europei occidentali- non ha mai visto e non ha conosciuto.
In questi anni abbiamo voluto coltivare una convinzione, realista e tenace: la pace è possibile. Bisogna trovare le vie per realizzarla, con pazienza, ricostruendo le fratture, creando un’intelaiatura di garanzie per il futuro, mostrando che non c’è niente di peggio che la guerra, dando sbocco alla volontà di pace di popoli, “ostaggi” della guerra, di una cultura o di una propaganda di guerra, come nel caso dei Grandi Laghi in Africa, della Costa d’Avorio o altri. La Comunità di Sant’Egidio connette questo impegno alle sue iniziative di dialogo tra religioni e tra credenti e laici, come questa 24° edizione di preghiera per la pace a Barcellona, nella consapevolezza che le religioni possono essere sostegni decisivi per la pace, ma anche elementi di sacralizzazione della guerra.
Il dialogo è quindi nei cromosomi della Comunità. Negli anni Novanta e, soprattutto, dopo l’11 settembre 2001, questa ricerca del dialogo è apparsa ingenua, in un mondo che sembrava destinato allo scontro di civiltà e di religione. La guerra, quella culturale ma anche quella combattuta, è stata considerata una dolorosa necessità. A questo assioma non abbiamo creduto. Non si tratta di pacifismo di principio, ma di realismo maturato attraverso l’esperienza pacificatrice dei diversi conflitti. Sant’Egidio non ha solo una posizione di “testimonianza” del valore della pace –diciamo, morale o religiosa-, ma agisce e interviene in modo concreto per cercare la pace in situazioni di conflitto. Più che di pacifisti, si dovrebbe parlare di pacificatori.
Ciò che ci preoccupa è che il conflitto – anche all’interno delle società, non solo quello tra Paesi diversi- è tornato ad essere “popolare” tra la gente. A livello di alcuni Stati si è fatto in modo che ovunque ci si convincesse che vi sono tornanti della storia in cui la guerra non si può evitare. Tale dimostrazione ha sempre bisogno di bugie e falsificazioni per fare leva. In alcuni casi si è anche trovato un nemico comune, come nel caso dell’Islam per l’Occidente. A guardare le società europee sembra non essere bastata la lezione delle tragedie del XX secolo: ancora si cercano i nemici e i capri espiatori: fossero immigrati, zingari, ebrei o atre minoranze.
Il disprezzo per l’altro, per il diverso sembra la cifra del nostro tempo. Molte guerre di questi anni sono state spiegate come prodotti ineluttabili di fatti oggettivi, indipendenti dalla volontà dei popoli. Ipocritamente nessun leader ammette di scegliere per la guerra. Sostiene invece che la guerra “lo ha scelto” e di essere stato costretto a rispondere all’“appello della storia”. Tale dottrina è divenuta contagiosa. E’ la guerra delle identità, delle etnie, del cacao, del petrolio, dei diamanti, del coltan ecc.: cosa c’è di più reale e di più “incontournable” (inevitabile) di tali realtà che l’uomo non controlla? In altre parole: se si verificano alcune condizioni, certamente vi sarà una guerra. Così si diffonde la cultura della contrapposizione, “inzuccherata” dal vittimismo, vera impronta comune della cultura globale. Il disprezzo comincia a giustificare la violenza e poi la guerra.
La guerra e il disprezzo infatti si fanno cultura e deformano l’anima di popoli interi. Andrea Riccardi sostiene che esiste un’architettura spirituale dei popoli che si può ammalare. Sulla pace, Sant’Egidio è stata in questi anni ferma, non ha ceduto a ragionamenti isterici ma ne ha fatto una “vocazione”, a livello internazionale e a livello della società. L’amicizia con i poveri, la ricostruzione del tessuto lacerato di tanti quartieri delle grandi città europee, l’incontro tra generazioni diverse, l’incontro con gli anziani rifiutati, il dialogo tra le religioni e le culture, le iniziative di pace: Sant’Egidio non ha smesso di insistere sul dialogo, sulla necessità del “convivere”, sulla ricerca dei sottili fili da riannodare perché i nemici e gli estranei si guardino e alla fine si riscoprano fratelli.
Se c’è un metodo – ma non ce n’è uno solo perché le situazioni sono diverse - è quello antico di un diplomatico della Chiesa, Angelo Giuseppe Roncalli, divenuto papa con il nome di Giovanni XXIII, che diceva: “bisogna cercare quello che unisce e mettere da parte quello che divide”. Quello che unisce –in tutti i casi- è l’appartenenza ad una comune famiglia nazionale, ma spesso sono anche aspetti minori della biografia degli uomini che si combattono. Quello che unisce diventa –ed è un successo- la convinzione che non c’è futuro con l’eliminazione dell’altro. Bisogna, insomma, riconoscere che l’una parte e l’altra hanno un posto nel futuro del proprio paese.
La pace non è una cosa sola, non è soltanto trattative ma anche convivenza (pace preventiva), costruzione di una società compassionevole, lavoro per i diritti (pena di morte e carceri) ecc. Per questo è importante connetterla al lavoro delle comunità in tanti campi: il programma DREAM per la cura dell’Aids che oggi raggiunge 90.000 persone in Africa e la lotta contro la pena di morte. Poi c’è il tema della violenza diffusa, che sta diventando una nuova guerra civile: anche lavorare contro le maras è lavorare per la pace. Soprattutto per i bambini: quanto sono importanti le scuole della pace, spazi di pace e di cultura organizzati dalle nostre Comunità nel mondo, e non la scuola della violenza che è la strada. La cultura dominante non ha simpatia per il lavoro per la pace e vi scorge sempre una “rinuncia”, alla propria forza, identità o ragioni. Spesso si sente dire che troppo dialogo è indice di “odio di sé”. Sono tanti coloro che considerano il lavoro per la pace un’ingenuità.
La storia della pace in Mozambico, ottenuta da Sant’Egidio con una mediazione di 27 mesi, dimostra che c’è una rivelazione della forza di pace della società civile che si trasforma in visione: é sempre possibile fare la pace, trovare una strada che passi attraverso le persone - anche le più indurite - e provi a guarire con pazienza la patologia della memoria, i rancori, le ideologie, il disprezzo. Per i cristiani questa è la forza debole. Da essa nasce la “politica della compassione” cioè cercare i modi concreti per realizzare la pace, laddove è minacciata o non esiste, formando anche alleanze.
In questo grande lavoro per la pace vorrei citare i nomi di due nostri amici, uno africano, l’altro centramericano che hanno perso la loro vita in nome della pace: Floribert, giovane doganiere congolese che non ha ceduto ai ricatti ed è stato ucciso per non far entrare nel suo paese partite avariate di farina e di zucchero: credeva al valore dell’onestà in un contesto di corruzione. William, giovane salvadoregno, amico dei bambini poveri di un quartiere periferico della capitale, dove era responsabile di una scuola della pace, ucciso dalle maras perché la sua vita era testimonianza concreta di un’alternativa alla violenza giovanile. La madre di William ha ritirato a nome di suo figlio un premio per la pace a Roma, l’estate scorsa.
Anche questo, cari amici, è Sant’Egidio. Sì, tutti possono lavorare per la pace, per la convivenza, questa è la nostra convinzione più profonda.