I corridoi umanitari per noi operazione colomba sono nati tre anni fa, come speranza per convincere i siriani con cui vivevamo, nel nord del libano, a non partire per mare con i barconi. Non sono mai stati altro che il tentativo di dare una alternativa al rischio di morire per mare e di dividere le famiglie, lasciando in situazione di rischio estremo sia per chi partiva che per chi restava.
Vorrei raccontare brevemente quale è la situazione dei siriani profughi in libano:
Al momento vivono in Libano circa un milione di siriani rifugiati, con una popolazione libanese di 3 milioni e mezzo. Il governo libanese non è firmatario della convenzione di Ginevra del 1951, motivo per cui non riconosce lo status di “rifugiato”, non riconosce valore ai documenti rilasciati da UNHCR e non organizza o fornisce protezione ai siriani fuggiti dalla guerra. Le persone vivono in soluzioni di fortuna, in tende costruite in legno e teli di nylon, o affittando stanze in case ancora in costruzione. La maggior parte dei profughi siriani è senza documenti. Questo rende loro impossibile trovare un lavoro stabile e regolare: la netta maggioranza è soggetta a sfruttamento, costretta a lavorare intere giornate per pochi dollari di retribuzione. Finora, sono sopravvissuti grazie al supporto di organizzazioni umanitarie che distribuiscono cibo, soldi, alloggi e medicine. Tuttavia, il sostegno fornito dalle ONG costituisce una parziale soluzione alla complessa situazione dei siriani, dato il numero altissimo di rifugiati. Le capacità economiche e logistiche delle organizzazioni, non permettono un aiuto diffuso e obbligano a fare una scelta su chi aiutare.
In Libano le condizioni sociali, politiche ed economiche hanno ovviamente risentito drammaticamente della crisi siriana dato il protrarsi dell’emergenza: la situazione dà preoccupanti segnali di instabilità. La reperibilità delle risorse di cibo è drasticamente peggiorata, la pressione ad andarsene sui profughi siriani è in aumento, influenzata dall’informazione dei media, la vita quotidiana è diventata particolarmente insicura. Ciononostante, dopo sette anni di guerra, contrariamente alle voci riguardo la conclusione del conflitto, ancora non è possibile un rientro sicuro per i profughi siriani.
Vivendo con i rifugiati nel campo, siamo stati testimoni di quanto invivibile può divenire la vita per chi è senza documenti e non può rivendicare alcun diritto né ha alcuna prospettiva per il futuro. A partire da Ottobre 2017, 20.000 famiglie sono state escluse dal programma di assistenza alimentare (World Food Program) fornito da UNHCR, attraverso il qualche ricevevano mensilmente un supporto monetario necessario per il sostentamento famigliare spendibile in cibo. Questa misura ha portato migliaia di persone a condizione di fame e povertà estrema. Tale manovra arriva dopo sei anni di assoluta mancanza di provvedimenti per rendere autonomi i rifugiati siriani, e dopo che le famiglie hanno dato fondo ad ogni risparmio.
Nel frattempo, la comunità libanese, impaurita ed esasperata, percepisce sempre più la presenza dei Siriani come una minaccia per il loro fragile equilibrio e chiede il loro rientro in Siria. Negli ultimi mesi manifestazioni della popolazione libanese hanno avuto luogo in alcune città cristiane, chiedendo che i rifugiati siriani tornino nel loro paese immediatamente.
Il 26 Settembre 2017 il Presidente del Libano, Michel Aoun ha incontrato i rappresentati degli Stati parte del Consiglio di Sicurezza, l’Unione Europea e la Lega Araba, ha affermato che il suo Paese, non può più far fronte alla presenza dei rifugiati e ha fatto appello alla Comunità Internazionale perché intervengano in aiuto, organizzando il ritorno dei siriani.
Storie di persone e famiglie accolte:
Abbiamo incontrato Badia e la sua famiglia mentre con i volontari dell`operazione colomba visitavamo i piccoli e numerosi campi profughi informali del nord del libano, molto vicino al confine con la Siria e con la città di Homs in cui abitavano prima della guerra. Erano arrivati da poco a Tel Abbas, villaggio cristiano e sunnita, 3000 libanesi, 2000 siriani. Dal primo incontro la loro famiglia matriarcale (quello che Badia, la mudira, decide, si fa, punto) ci ha accolto e fatto sentire parte di loro, tra noi, prima di impararne i nomi, li abbiamo battezzati `i napoletani` , per il loro calore e la simpatia. Al tempo dormivamo in un garage in affitto nel centro del villaggio, come molte famiglie siriane, in quella che secondo la ripida scala di discesa verso la povertà era riconosciuta come la penultima posizione: chi ha ancora qualche soldo affitta un appartamento, chi riesce a rimediare almeno un centinaio di dollari al mese affitta un garage, gli altri affittano un pezzetto di terra e costruiscono una tenda di plastica e legno.
Badia e i suoi figli ci hanno raccontato che a turno uno di loro rimaneva sveglio di notte per controllare che le tende non venissero bruciate o che nessuno venisse a far loro del male e non appena abbiamo raccontato cosa facevamo come operazione colomba, proteggere ed accompagnare senza armi i civili, ci hanno chiesto di andare a vivere con loro. Così è stata costruita la nostra prima tenda, abbiamo dormito qualche giorno a settimana con loro e qualche giorno nel garage.
Una volta Badia, ci ha raccontato chi è: sono Homs, la mia città, Homs la bella, la libera, sono la madre dei figli morti in guerra, la moglie del marito che non tornerà più vivo, diceva piangendo; dal vivere insieme, dal dolore e dalla fierezza nasceva una poesia vera e viva a cui non siamo più abituati. Suo figlio maggiore seduto come tutti a terra parlava di sé e della sua famiglia dicendo: noi siamo gli ultimi, quelli in basso vicino alla terra, tocchiamo tutto con le mani e anche se vediamo un uccello in volo gli diciamo: prima o poi dovrai ritornare a terra anche tu.
Poi un giorno le minacce sono diventate più pressanti, hanno trovato fuori dalle tende un foglio con i loro nomi e la promessa che sarebbero stati uccisi se non se ne fossero andati: ci hanno chiesto di vivere stabilmente al campo: siamo uguali noi, diceva Badia, noi siamo profughi siriani e voi profughi italiani…
In questi anni abbiamo diviso canzoni pranzi paure pianti, tanta allegria, il freddo, il caldo, la speranza di trovare un modo di salvarsi che non fossero i barconi, l`idea di inventare insieme una proposta di pace. Da questa appartenenza reciproca, sotto lo sguardo sorridente, a volte preoccupato, di Badia, è nata molta vita, la condivisione nelle tende del campo, occidentali e siriani e libanesi che si parlano e si capiscono, i corridoi per uscire dalla guerra, un significato nuovo per la vita di tanti di noi.
Badia ci ha sempre detto che noi siamo come suoi figli: in lei la dimensione personale e quella comunitaria sono sempre unite, direi che e` qualcosa che sarebbe bello imparare.
Ora vivono tutti a Trento e dintorni.
Conclusioni, Abu Abdallah, accolto con la sua famiglia a Torino
Nel nome di valori che sono soltanto umani, vi chiediamo di aiutarci a spegnere questo incendio.
Se non moriamo uccisi da un colpo di pistola moriamo comunque dentro; quelli che non muoiono internamente muoiono di fame e quelli che non muoiono di fame muoiono per mancanza di futuro e di speranza. Le persone che vivono nei campi profughi sono sempre sul gradino più basso della società, a prendere il gelo dell'inverno o il caldo soffocante dell'estate.
Nel nome della libertà e della dignità umana vi chiediamo, se siete veramente dei popoli liberi, di aiutarci e sostenerci per ritornare in Siria.
E ringraziamo tutte le organizzazioni che ci aiuteranno a portare la nostra voce al di fuori dei confini libanesi e siriani.