Premessa
Papa Francesco ha un chiodo fisso nella sua predicazione: le periferie, le frontiere, tutto ciò che è distante da noi non solo fisicamente, ma anche concettualmente. Come dargli torto? Se Cristo, oggi, fosse fisicamente nella nostra società, come duemila anni fa, inizierebbe la sua missione proprio da lì. Nel Vangelo di Marco è scritto che “Gesù andò nella Galilea” (1, 14), inaugurando da quella regione frontaliera il suo ministero salvifico. Già, la Galilea, terra di “bifolchi” (così erano chiamati gli abitanti di quella regione dai Giudei), una terra disprezzata, ricettacolo di poveri e di contadini, gente rozza e di poco conto. La frontiera, è bene sottolinearlo, non è solo un luogo geografico che divide, che segna il limite, che separa il noto dall’ignoto, ma è anche una situazione, soprattutto un’opzione. E’ proprio lì, quando i rapporti tra le nazioni si deteriorano, che avvengono le prime scaramucce, le azioni premonitrici di una conflittualità che potrebbe investire due Paesi confinanti. Dal punto di vista “situazionale”, la frontiera rappresenta la linea di faglia tra ciò che è certo (il proprio Paese di origine) e ciò che è incerto, tra il comodo benessere e l’emarginazione. Passare la frontiera significa dunque lasciarsi alle spalle una situazione familiare, tuffandosi nell’ignoto. Ma non a tutti piace stare così esposti, a meno che non si tratti di turisti in cerca d’avventure. Viene, pertanto, spontaneo chiedersi quali possano essere, oggi, le frontiere dove il Signore ci chiama a seminare la Sua Parola. A parte quelle terre dove si combattono le cosiddette “guerre dimenticante” – dalla Somalia alla regione sudanese del Darfur, dalla Repubblica Centrafricana all’ex Zaire – o le grandi baraccopoli latinoamericane, asiatiche o africane, vi sono degli areopaghi esistenziali che vanno oltre la categoria geografica. Basti pensare al mondo giovanile, in particolare quello degli “under 25, 30…” alle prese con il tempo negato, quello della disoccupazione. Diplomati, laureati “brevi” e dottori di ricerca specializzati, tutti penalizzati dalla crisi delle imprese, i tagli nel settore pubblico e la poca lungimiranza della classe politica. Per non palare di quei padri o di quelle madri che hanno perso il lavoro e sono in cassa integrazione o addirittura di quelle persone sprovviste, per varie ragioni, del sostegno di qualsiasi ammortizzatore sociale. E cosa dire degli immigrati “irregolari”, dei barboni o di quei pensionati che sbarcano il lunario rovistando nei cassonetti?
Il metodo di lettura della realtà
Se la periferia/frontiera è il locus per eccellenza della missione, per poter essere a fianco dei poveri, è necessario comprendere il mondo, saperlo interpretare, leggendo attentamente i “segni dei tempi”[1] stando appunto in periferia. A questo proposito è bene rammentare che Giovanni XXIII, nella sua profetica lettura della storia della Chiesa, ha invitato a scrutare questi segni affermando: “Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi, crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sui destini della chiesa e dell’umanità”[2]. Questa attenzione ai segni da parte del “Papa Buono” trova la sua esplicitazione sia nella Gaudium et Spes, come anche nella Lumen Gentium, dove è evidente il cambiamento ecclesiologico di posizione e di prospettiva. La Chiesa si autocomprende al servizio della Parola rivelata, proponendosi come mediazione di essa nel mondo. Una Chiesa pellegrina con l’uomo del suo tempo che per lui rappresenta la “compagnia della fede” nella ricerca della autentica volontà di Dio[3]. Una Chiesa umilissima che chiede aiuto agli uomini del suo tempo per essere capace di leggere attentamente i fenomeni umani. Una Chiesa povera, consapevole che la verità è ricerca comune e che essa la possiede solo in una prospettiva escatologica. Intendiamoci, questa non è una prospettiva del protestantesimo, è il modo di pensare della più alta autorità del Magistero: il Concilio! “La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano... la Chiesa ha un bisogno particolare dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti delle varie situazioni e discipline, e ne capiscono la mentalità, si tratti di credenti o non credenti”[4]. Non credo sia esagerato dire che mai erano state scritte parole così esplicite da parte della Chiesa nei confronti del mondo. Mi pare che questo sia un dato che va ricordato con insistenza, perché segna un modo nuovo di porsi della Chiesa – ancora non pienamente realizzato – nei confronti delle culture, delle ideologie e degli uomini che le formano. In questo contesto, i segni dei tempi orientano verso un’interpretazione più universale del dato rivelato e obbligano la stessa Chiesa, nel suo insegnamento, a sintonizzare tale messaggio salvifico alla vita e alla cultura dell’uomo, una realtà in costante mutamento. Ma quali sono oggi realmente i segni dei tempi che possiamo leggere stando in periferia e sui quali dovremmo operare un serio discernimento? La lista potrebbe essere molto lunga, ma per brevità mi soffermerò solo su quelli che, dalla mia prospettiva, risultano essere sintomatici di un mondo che sta attraversando una fase, senza precedenti nella storia umana, di mutazioni; vere e proprie trasformazioni trasversali, presenti con sfumature diverse, nei cinque continenti.
1) Il primo segno è quello della globalizzazione. Un fenomeno su scala planetaria i cui effetti sono evidenti a livello socio-politico-economico, oltre che culturale e religioso. Nell’immaginario collettivo è comunque prevalentemente riferita al campo economico-finanziario. Si tratta di un processo di integrazione economica mondiale il quale comporta, oltre all’eliminazione di barriere di natura giuridica, economica e culturale, la circolazione di persone, cose e beni economici in generale. Da una parte la globalizzazione ha determinato l’ampliamento su scala internazionale delle opportunità economiche (opportunità d’investimento, di produzione, di consumo, di risparmio, di lavoro, etc.), in particolare in relazione alle condizioni di prezzo o di costo (arbitraggio); dall’altra ha acuito l’inasprimento della concorrenza nei settori interessati dai fenomeni suddetti, in particolare tendenza al livellamento di prezzi e costi alle condizioni più convenienti su scala internazionale. Sta di fatto che il rafforzamento della interdipendenza tra operatori, unità produttive e sistemi economici in località e Paesi geograficamente distanti, ha fatto sì che eventi economici in un determinato luogo avessero poi ripercussioni, spesso inattese o indesiderate, in altri. Le recenti vicende sindacali, legate alla recessione in Europa hanno acceso il dibattito su questo tema. È innegabile che oggi vengano imposti pesanti sacrifici ai lavoratori, un po’ a tutte le latitudini. Si dice solitamente che per essere competitivi sul mercato, si debba emulare a tutti i costi il “modello dei Brics” che, com’è noto, ha sbaragliato l’Europa. Ma se i Paesi emergenti hanno un prodotto interno lordo (Pil) che cresce è perché la manodopera da quelle parti costa quattro soldi. Basterebbe chiederlo a tanti nostri imprenditori del manifatturiero che hanno deciso d’investire in Cina a prezzi davvero stracciati. Oggi, insomma, non esistono più regole certe che affermino il primato della politica sul “business” e, nel vuoto legislativo lasciato dai soggetti nazionali, si insediano attori privati che divengono padroni assoluti, sostituendosi ai governanti. Dobbiamo forse, come cristiani, rassegnarci alla supremazia del mercato, dove la produzione a tutti i costi cancella ogni valore, generando peraltro, come ha scritto un grande intellettuale italiano Stefano Rodotà, “una sorta di invincibile diritto naturale”? Vi sono altre strade da percorrere? Sarà possibile che il sacrosanto diritto al lavoro, sancito dalle grandi democrazie, debba essere silenziato dai fautori del liberismo più sfrenato, che pretendono di muoversi impunemente, senza freni inibitori, con la convinzione che è possibile fare incetta di braccia a qualsiasi prezzo in giro per il mondo? La posta in gioco è alta perché, come raccontano i nostri missionari, vi è un bisogno crescente di giustizia in ogni angolo della Terra. Il timore nasce anche dal pericoloso sommarsi, su scala planetaria, dei costi eccessivamente elevati delle derrate agricole, con effetti devastanti sui ceti meno abbienti. A ciò si aggiunga il fatto che ogni variazione benché minima di prezzi e tariffe, dal costo del carburante ai servizi della telefonia cellulare, intacca inesorabilmente i redditi, ormai ridotti all’osso, della povera gente. Nel frattempo, molti governi sono costretti a “raschiare il barile” per far fronte alla spesa pubblica, falcidiati come sono dalla crisi finanziaria globale e dall’incertezza di un “sistema” che fa acqua da tutte le parti. Dopo oltre sette anni dal fallimento della banca speculativa Lehman Brothers e dallo scoppio della bolla finanziaria negli Usa – è bene rammentarlo - non siamo ancora usciti dal pantano. Eppure, tutti sanno che la crisi finanziaria globale non era un avvenimento imprevedibile, ma il risultato inevitabile dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, del ruolo nefasto della speculazione, in particolare della finanza derivata e soprattutto della grande propensione al rischio. Molte economie, compresa quella italiana, sono state pesantemente colpite nei loro sistemi produttivi e sociali. Nel frattempo i super ricchi del pianeta lo sono diventati ancor di più, mentre i poveri hanno superato il miliardo. La ricchezza si è vertiginosamente concentrata nelle mani dello 0,1% dei più ricchi del mondo. I cittadini, le aziende e i governi, invece, sono stati oggetto di continue pressioni per far fronte ai propri debiti. Nonostante i tanti summit internazionali le necessarie riforme non sono state fatte. Invece, alle operazioni di bail out, cioè di salvataggio pubblico delle banche, è stato affiancato il bail in, cioè la possibilità di utilizzare anche parte dei depositi dei risparmiatori per salvare le banche in crisi! La speculazione continua, anche sulle materie prime e sui beni alimentari, come abbiamo già visto nelle precedenti pagine. I derivati più pericolosi, gli Otc, ammontano ancora a 700.000 (settecentomila) miliardi di dollari. Tutto ciò purtroppo mette in discussione con effetti destabilizzanti gli stessi assetti geopolitici mondiali. Il processo di concentrazione del potere finanziario è notevolmente cresciuto. Si pensi che, mentre nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l’80% dei derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche soltanto - la JP Morgan Chase, la City Group, la Bank of America e la Goldman Sachs - detengono il 94% dell’intero ammontare, che è di circa 230 trilioni di dollari. Tra l’altro si evidenzia il ruolo nefasto delle agenzie di rating e il loro grave conflitto di interesse con le “too big to fail”, (troppo grandi per poter esser lasciate fallire), cioè le banche più impegnate nella speculazione. Dal dopoguerra, non avevamo mai conosciuto in Europa e in particolare nel nostro Paese, una stagione così recessiva in cui si arrivasse a mettere in discussione radicalmente le politiche sociali, peraltro determinando un impoverimento della maggioranza della popolazione. Don Enrico Chiavacci, uno dei massimi teologi morali italiani del secondo Novecento scomparso il 25 agosto del 2013, nella sua opera “Teologia morale e vita economica”, riassumeva l’insegnamento di Gesù in due comandamenti, validi per ogni discepolo: “cerca di non arricchirti” e “se hai, hai per condividere con i poveri”. Da questo impianto concettuale derivano, secondo lo studioso senese, il “divieto di ogni attività economica di tipo esclusivamente speculativo”, come giocare in borsa con la variante della speculazione valutaria, e il “divieto di contratto aleatorio”. Quest’ultimo, Chiavacci lo spiega così: “Ogni forma di azzardo e di rischio di una somma, con il solo scopo di vederla ritornare moltiplicata, senza che ciò implichi attività lavorativa, è pura ricerca di ricchezza ulteriore”. Questo, in sostanza, significa che anche la filiera del gioco - dal gratta e vinci al casinò - è immorale. Sta di fatto che la logica della cosiddetta massimizzazione del profitto, rischiando peraltro a dismisura, è molto radicata nella nostra cultura postmoderna, al punto tale che, come scrive il gesuita John Haughey “Noi occidentali leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo”. Non è un caso se l’attuale crisi finanziaria “ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala”, come afferma un documento del Pontificio Consiglio Justitia et Pax del 2011. Vogliamo rassegnarci a vedere l’uomo vivere come “homo homini lupus”? Qualcuno vorrebbe che l’economia nel suo complesso fosse sempre e comunque un cane sciolto, ma questi sono i risultati! Sia chiaro, dei problemi globali che assillano il nostro povero mondo e del cambiamento d’epoca che essi rivelano, non ci si può liberare dando del “contestatore” a chiunque provi a denunciarli. Coloro che la pensano in maniera così reazionaria, hanno già deciso di gettare la spugna, di consegnarsi prigionieri a una lettura del fenomeno “globalizzazione” che non sa prescindere da categorie diverse da quelle imposte da certi sacerdoti del “dio denaro”. Occorre, dunque, come credenti, saper leggere e interpretare i fenomeni sociali determinati dalla globalizzazione “con intelligenza e amore della verità – proprio come si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa - senza preoccupazioni dettate da interessi di gruppo o personali” per un agire corretto delle politiche economiche[5]. Dato che un governo planetario non appartiene, almeno per ora, alle ipotesi realistiche, e comunque non può essere concepito come la proiezione su scala mondiale delle sovranità di questo o quel Paese, sarebbe auspicabile che il consesso delle nazioni si dotasse di strumenti in grado di umanizzare la globalizzazione. Proviamo ad immaginare come sarebbe l’Organizzazione del Commercio Mondiale (Wto) se fosse dotata di una struttura tripartita con i rappresentanti dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori, in grado di determinare congiuntamente le politiche e i programmi dell’organizzazione stesse. Proprio perché si sta giocando una partita difficile, è indispensabile garantire l’esistenza di una molteplicità di soggetti dotati di diritti, attraverso regole condivise che possano ridistribuire il potere nel villaggio globale tra chi lo esercita e chi può controllarlo. Se il profitto è l’unica bussola, rischiamo davvero grosso. Ecco perché la globalizzazione è una realtà bisognosa di redenzione per il bene comune dei popoli. Purtroppo, questa lettura della globalizzazione, che ho tentato di raccontare in maniera succinta, ma spero sufficientemente chiara, non è condivisa da tutti. Vi sono non pochi cattolici nel mondo che non hanno ancora compreso che questa materia non può prescindere da un giudizio evangelico. In alcune coscienze si manifesta una sorta di dissociazione tra lo spirito cristiano e le questioni del mondo. Se da una parte va riconosciuto il primato della Parola di Dio, dall’altra credo sia altamente peccaminoso fare orecchie da mercante, sentendosi spiritualmente a posto, quando in altre aree geografiche del nostro pianeta si consumano drammi indicibili come l’annosa crisi somala o la mattanza siriana. Ecco perché, anche nell’ambito delle comunità cristiane, è quanto mai urgente ricercare e rendere attuative delle strategie che consentano di prendere in mano le redini della situazione. A tal proposito, è bene rammentare come anche nella costituzione pastorale Gaudium et spes non si guardi più alla Chiesa come societas iuridicae perfecta, chiusa nella solidità e coerenza del proprio ordinamento giuridico, ma come realtà protesa come mai verso il mondo, un mondo spesso lontano e segnato dalla secolarizzazione. Questo approccio viene definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa con la parola “sussidiarietà”, principio che, sebbene richiamato anche dal diritto canonico, non ha mai trovato in esso piena attuazione, disattendendo, in parte, il dettato conciliare. Tale spirito consente ai cristiani, in quanto cittadini, di diventare parte attiva nella soluzione dei problemi d’interesse generale.
2) Un altro segno dei tempi col quale dobbiamo misurarci è quello del fondamentalismo. Anche in questo caso vi è un legame con la globalizzazione e più in generale con gli effetti di una società in continua trasformazione. Si tratta di un tentativo particolarmente vigoroso, seducente e pericoloso nelle forme, di ritornare ai principi del passato, veri o presunti. I fautori del fondamentalismo sono convinti che si stava meglio una volta, quando la società era ingessata da un complesso di norme e punti fermi che regolavano la vita della gente. Quando cioè vi era la certezza dell’autorità e di una verità assoluta. Ma da dove viene questa parola, “fondamentalismo”? Il termine, oggi, è usato con grande disinvoltura, soprattutto dai giornalisti, in riferimento a certi movimenti religiosi nell’ambito del mondo islamico (es.: Isis), ma si dimentica che l’origine è rintracciabile, storicamente, in quella corrente di pensiero, nata all’interno della Chiesa battista, che intendeva opporsi al modernismo e al razionalismo teologici che si diffondevano fra i fedeli evangelici. Il termine “fondamentalismo” non aveva all’origine accezioni negative come accade oggi. Esso è legato alla pubblicazione, nel 1909, di una raccolta di dodici volumi di saggi intitolata “The Fundamentals”. I testi attaccavano le attività di filologia, storia, archeologia e critica, della scuola esegetica detta di “Alta critica”. Rivendicavano, al contrario, la volontà di riaffermare in modo dogmatico punti irrinunciabili della fede definiti “fundamentals”, fondamenti, e corrispondono anche all’affermazione della necessità di una fede facilmente comprensibile all’individuo. Questa rivendicazione aveva una prospettiva anche politico-sociale, con forte critica definibile “anti-intellettuale” o “anti-elìtes” (contro il pericolo di una società, o di una morale, degli avvocati e dei filosofi). Caratteristica del pensiero dei fondamentalisti, era la riaffermazione del valore letterale del testo della Bibbia. Successivamente, nel corso del Novecento, questo termine si è diffuso nell’uso comune per identificare tutti quei punti di vista - correnti di pensiero e pratica nell'ambito religioso - che insistono sull'interpretazione letterale dei testi sacri delle grandi religioni, che hanno carattere di movimenti anti-modernisti all’interno di esse. Da rilevare che ciascuno di questi fondamentalismi ha le sue caratteristiche e spesso è in aperto conflitto con gli altri. Di fronte ad una questione così cruciale, e qua e là accesa da bagliori sempre più inquietanti, soprattutto dopo le tragiche vicende dell’11 Settembre (tra islam e cristianesimo), occorre scongiurare il pericolo di forzature o banalizzazioni indebite. Come ricorda Youssef M. Choueiri in un suo saggio sulla matrice islamica di questo fenomeno, il fondamentalismo “indica quella posizione intellettuale che pretende di derivare i principi politici da un testo ritenuto sacro”[6]. Più in generale potremmo dire che il fondamentalista, per presunzione o ignoranza, partendo dall’assunto che nell’esistenza umana esista un unico modello di riferimento, è fortemente convinto che la sua visione del mondo debba essere imposta ad ogni libera coscienza. In questa prospettiva, allora, il fondamentalismo non può certo essere circoscritto al mondo della Mezzaluna, essendo presente sotto varie etichette e con diverse sfumature in numerosi sistemi di credenza. Le uccisioni perpetrate nello Stato indiano dell’Orissa, come anche certa intransigenza nell’ambito di alcune sette cristiane, tendono ad una concezione ottusa dell’esistenza, assoggettando ogni alterità, fino quasi a soffocarne, consapevolmente o più spesso inconsapevolmente, ogni dimensione che parta da paradigmi differenti. Occorre pertanto sorvegliare la linea di demarcazione, sfumata o subdola, di certa comunicazione che vorrebbe sempre e comunque semplificare realtà complesse attraverso spettacolarizzazioni fuorvianti o enfatizzazioni eccessive. Per fortuna, in ogni tradizione religiosa, vi sono credenti attenti e lungimiranti a cui va tutta la nostra stima. Amos Luzzato, ad esempio, già presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha dato prova di quella libertà di spirito e onestà intellettuale che dovrebbe sancire il dialogo interreligioso, affermando coraggiosamente che “non tutti i musulmani sono terroristi, non tutti gli americani sono imperialisti, non tutti i laici disconoscono i principi altrui, non tutti i cattolici sono impositori della loro fede, non tutti gli Ebrei sono ricchi o straccioni, torturatori dei Palestinesi o vittime di bombe umane, né tutti i Palestinesi sono occulti seminatori di morte”[7]. Sergio Zavoli, uno dei più celebri giornalisti italiani viventi, introducendo questo virgolettato di Luzzato, da attento analista del palcoscenico della storia contemporanea, osserva quanto importante sia scongiurare la radicalizzazione del confronto tra Oriente e Occidente, affermando che “aprirsi a ciò che pensano e sentono gli altri non solo è augurabile ma è anche necessario, se non vorremmo parlarne, nella solitudine, con sommarietà e arroganza reciproche”[8]. Anche perché, di questo passo, come rileva sempre Luzzato, “finiremmo col trovarci sull’orlo di un baratro che stiamo scavando con le nostre stesse mani”[9]. D’altronde, avvertiamo un po’ tutti che spesso le forzature sono a trecentosessanta gradi e vanno ben oltre la sfera religiosa, riguardando le stesse civiltà e culture attraverso atteggiamenti impositivi che vogliono l’omologazione a tutti i costi, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere. Le differenze possono convivere anche perché l’accoglienza dello straniero, come insegna il Vangelo, si traduce nell’abbattimento di ogni barriera, muro e divisione. Purtroppo, dobbiamo prendere atto che la disinformazione è tale per cui, nell’immaginario collettivo, quando si parla dei musulmani, pare che siano tutti terroristi o kamikaze. Ma non è vero! Quanti intellettuali del mondo arabo sono stati i primi ad opporsi con coraggio e povertà di mezzi contro ogni forma discriminazione, avvertendo la necessità di una lettura critica della storia islamica in netto contrasto con i fautori del “jihad” o di qualsiasi dittatura! È emblematico il pensiero dello scrittore egiziano Sayyed al-Qimani che ha difeso strenuamente il razionalismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione islamica – riferendosi ad esempio al pensiero del filosofo Averroè – ma poi “silenziato” dai tradizionalisti fautori della sharìa, la legge islamica[10]. Un altro intellettuale che ha invocato il rinnovamento è stato il suo connazionale Khalil Abd al-Karim che ha presentato la propria lettura storica come alternativa alla visione fondamentalista degli estremisti[11]. Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, diceva che l’Islam contemporaneo è nel suo XIII / XIV secolo. Se guardiamo alla storia europea di quel tempo, cioè del XIII / XIV secolo europeo, scopriremo che per il Vecchio Continente non era ancora iniziata la riforma protestante. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico, i musulmani non possono pensare di saltare a piè pari cinque, sei secoli, arrivando di getto alla cultura moderna. “Dobbiamo riformare l’Islam – scriveva l’intellettuale iraniano - rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale” [12]. Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 – anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dell’allora Scià di Persia - indicano chiaramente il percorso che occorre seguire per sostenere le piattaforme democratiche nei Paesi della Mezzaluna. Una responsabilità di cui deve farsi interprete soprattutto l’Europa se vuole essere coerente con i propri principi. Proseguendo la nostra riflessione sul fondamentalismo, c’è da considerare che il termine viene oggi utilizzato in senso lato anche per indicare un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti di testi o teorie non necessariamente religiose, e i comportamenti che ne derivano. In economia, ad esempio, i critici del capitalismo liberale accusano talvolta di “fondamentalismo” i sostenitori delle teorie secondo le quali il mercato dovrebbe essere, secondo loro, l’unico regolatore della vita sociale, sottintendendo che questo principio sia affermato in modo dogmatico. In politica, il neoconservatorismo è un’altra reazione alle paurose incertezze del nostro tempo, per cui si sostiene una visione manichea della realtà: da una parte ci sono i buoni, dall’altra i cattivi, per cui i nemici vanno spazzati via, soprattutto se sostengono iniziative antagoniste e bellicose. In campo religioso, alcuni gruppi religiosi accusano di “fondamentalismo laicista” le posizioni anticlericali dei loro avversari, ritenendoli incapaci di accettare deroghe rispetto a una visione tradizionale della laicità.
3) Infine, uno dei segni dei tempi che credo meriti di essere menzionato è quello della costante e crescente affermazione della società civile. Una realtà trasversale che abbraccia il consesso delle nazioni: associazioni, gruppi, movimenti, organizzazioni fatte di uomini e di donne di buona volontà che trovano nell’impegno, soprattutto volontario, un modo per rispondere alle sfide di una società in cui la politica è in grave affanno. Spirito di cittadinanza e senso della partecipazione al “bene comune” evidenziano, antropologicamente parlando, una voglia di riscatto di fronte al crollo delle vecchie ideologie, che la Chiesa non può sottovalutare. Se vogliamo dunque trarre un qualcosa di utile e fecondo da ciò, la valorizzazione dei laici va davvero messa in cima all’agenda pastorale, contro la tentazione sempre in agguato del clericalismo che alla lunga comporta una conseguente svalutazione della fede, resa così un vuoto senza alcuna esperienza. E’ bene rammentare, in tal senso, che l’angustia della nostra verità amministrata, quali pastori, toglie ai laici non solo i mezzi per cogliere le sfide dell’età moderna, che essi quindi devono affrontare da soli, ma anche la possibilità di accostarsi alla vita di fede per valorizzare la loro stessa esistenza. Partendo dal presupposto che la comunità ecclesiale è un dono di Dio, bene della Chiesa per la Chiesa e insieme per la società, sarebbe auspicabile che, alla luce di quanto accade ai nostri giorni, vi fosse lo snodarsi di comunione, collaborazione, corresponsabilità, tre momenti strettamente legati fra loro, poiché la comunione porta alla collaborazione e quest’ultima implica un’autentica corresponsabilità. Le mie considerazioni muovono, perciò, da queste necessarie premesse. Alla definizione di christifideles [13] ha dedicato grandissima attenzione il Concilio Vaticano II, riprendendo l’originale ispirazione della Chiesa, ricusando i lunghi secoli bui in cui il laicato era divenuto secondario nella vita ecclesiale. Il Concilio sottolinea che fanno parte della Chiesa, in virtù del principio di uguaglianza e di varietà[14], tutti i battezzati, con stessa dignità e stesse caratteristiche, e dentro questo popolo vengono svolti vari compiti, ruoli, ministeri. Ma il dato originario è l’uguaglianza, il far parte della comunità cristiana con la stessa dignità, secondo la volontà di Cristo. Ecco che allora la definizione dei laici intesi come fedeli i quali, “dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e costituiti Popolo di Dio e, a loro modo, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono nella Chiesa e nel mondo la missione propria di tutto il popolo cristiano”. Certamente è il laicato, vero tesoro che rimane spesso nascosto nella grande massa, che abbiamo lasciato troppo ai margini. Ma è proprio qui che si trova il vero vissuto della fede praticata nelle pieghe della vita di ogni giorno; quella ordinaria, normale, di chi, tra l’altro, si impegna all’aiuto di quanti hanno più bisogno perché dimenticati, non solo dalla società, ma anche dallo Stato. Anche questa è Chiesa, ma non si può certo dire che i laici e le donne, in particolare, abbiano raggiunto una vera corresponsabilità; anzi, diciamo pure che vi è un certo squilibrio rispetto alle aspettative conciliari. Non solo, infatti, non hanno una qualche parte, perlomeno a livello di consultazione, nelle decisioni che vengono prese in diocesi o nell’individuare tratti caratteristici del nuovo vescovo che dovrà essere nominato; non hanno nemmeno quella spiritualità di comunione propriamente laicale che aiuti ad affrontare le tante contraddizioni del mondo moderno. La sensazione che si ha, dunque, è quella di mantenere il laico in uno stato, se non proprio di minorità, comunque sempre dipendente dai chierici. Bisogna rendersi conto che è decisivo avere un popolo, soprattutto per la Chiesa che verrà. Una generazione di cristiani, dalla fede più personale, più consapevole, che dia un ruolo diverso alla donna, sganciata da “tutele clericali”, portatrice di creatività nei diversi ambiti della vita, specialmente in politica. Cristiani che siano uomini della speranza, della libertà, della tolleranza e della pace. E allora, ancora di più, è necessario andare al fondo delle cose e cercare di leggere il futuro che Dio ha riservato alla sua Chiesa e a quanti credono in Lui. Nei suoi disegni imperscrutabili, si potrebbe riuscire a capire come da un gran male potrebbe venir fuori un gran bene. Annullare definitivamente le distanze è l’occasione buona per metterci in un ascolto aperto e fiducioso con chi, in forza del comune battesimo, ha stessa dignità e responsabilità.
Per concludere, queste prospettive sui segni dei tempi, per quanto approssimazioni di un futuro in cui credo, suppongono il coraggio di osare. Quel coraggio che papa Francesco sta testimoniando nel suo magistero dalla parte degli ultimi. (FINE)
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[1] Cfr., http://www.gliscritti.it/approf/2009/papers/fisichella150109.htm
[2] Giovanni XXIII, Humanae Salutis, Documento di indizione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 25 dicembre 1961; AAS 54 (1962), pp. 5-13.
[3] LG 8: EV 1/304-307.
[4] GS 44: EV 1/1460-ss.
[5] Cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, § 320.
[6] Cfr., Youssef M. Choueiri, Islamic Fundamentalism: The Story of Islamist Movements Continuum, London and New York 2010.
[7] Sergio Zavoli, La Questione, Mondadori, Milano 2007, p. 217 .
[8] Sergio Zavoli, op. cit.
[9] Ibid.
[10] Giuseppe Scattolin, Islam nella Globalizzazione, Emi, Bologna 2004, p. 111 ss.
[11] Ibid.
[12] Riccardo Cristiano, Tra lo Scià e Khomeini - Alì Sharia'ti, un'utopia soppressa, Edizioni Jouvence, Roma 2005.
[13] La nuova figura del christifideles diviene fondamentale in quanto teologicamente e giuridicamente ingloba allo stesso tempo quella del laico, quella dell’ordinato e quella del religioso (nel senso ampio di tutti coloro che assumono i consigli evangelici), senza mai confondersi con uno di questi stati.
[14] L.G., 32, 41. Tali principi inoltre sono stati recepiti dal can. 204 del nuovo Codex Iuris Canonici.